Giorgia Meloni – al contrario di altri leader europei – ha ricevuto congratulazioni convinte da Liz Truss, da pochi giorni Premier britannico. Truss non ha dimenticato che i Tory – ormai fuori dall’europarlamento dopo Brexit – sono stati fondatori di European Conservatives and Reformists: l’europartito oggi guidato dalla leader di Fratelli d’Italia, ora candidata Premier a Roma. Ma Meloni dev’essere grata al Truss soprattutto per il test d’esordio al tavolo politico-finanziario che il nuovo gabinetto conservatore ha offerto – suo malgrado – al cantiere del nuovo esecutivo di centrodestra italiano.
Il primo atto di governo di Downing Street è stato il varo di quello che il gergo corrente chiama “scostamento di bilancio”, a metà strada fra due budget annuali. Per il gabinetto Truss, in realtà, si è trattato di una super-manovra anticipata da 160 miliardi di sterline (circa 200 miliardi di euro al momento del lancio: l’intero importo dello stimolo previsto per l’Italia dal Recovery Plan per sette anni).
Il cuore del cosiddetto “mini-budget” è maxi-taglio delle tasse: imperniato sulla riduzione dal 20% al 19% dell’aliquota base dell’imposta sui redditi e sull’abolizione del prelievo massimo (45%) sui redditi più alti. Cancellati anche un aumento dal 19% al 25% dell’imposta sui redditi d’impresa in agenda per il 2023 e l’introduzione di ticket per le prestazioni del National Health Service.
L’offensiva d’urto anti-recessione – di impronta squisitamente thatcheriana – è stata però bocciata dai mercati: che hanno proprio a Londra uno dei grandi hub globali. La sterlina è crollata sia verso l’euro che verso il dollaro, e i “gilt” (i titoli del debito pubblico britannico) sono stati oggetto di vendite massicce. La Banca d’Inghilterra – già affiancata a Fed e Bce nel rialzo dei tassi in funzione antinflazione – ha dovuto confermare di essere pronta a ritocchi specifici in qualsiasi momento. È stato comunque pubblico e drammatico il disaccordo fra il cancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, e il governatore Andrew Bailey: quest’ultimo molto dubbioso di una manovra fiscale di massima dimensione tutta a prevedibile debito in una fase economica orientata verso la stagflazione, in tutta l’Euramerica.
Per il nuovo Governo italiano – sia o no Meloni a guidarlo – le lezioni sembrano due, interconnesse. La prima è che – non solo in Italia – non sembra esservi spazio per “sovranismi” finanziari, in cui un esecutivo nazionale persegua combinazioni di obiettivi e di strumenti di politica economica in via autonoma rispetto alle autorità monetarie (che invece è bene restino autonome).
Il secondo monito è ricalcato sulla principale contestazione a Truss: l’essersi impegnata in un manovra “imperiale” quando la Gran Bretagna è ormai un “normale” Paese del G7 e la sterlina è una moneta troppo piccola per reggere cambi bruschi di rotta sugli oceani aperti della globalità.
L’Italia, a differenza del Regno Unito, ha invece una moneta meno lontana dal dollaro: si chiama euro e per otto anni è stata pilotata dal Premier italiano uscente Mario Draghi. Il quale è stato anche il vero “ghostwriter” di una maxi-manovra europea denominata Recovery Fund, a sua volta assai più strutturata della plateale “scommessa” del nuovo gabinetto conservatore inglese.
Il valore-euro, naturalmente, va salvaguardato da tutti i membri del club: anche da quelli che vorrebbero usare la prossima riscrittura dei parametri di Maastricht non per rafforzare l’Unione ma per disarticolarla.
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