Il 1° settembre gli insegnanti delle scuole italiane hanno ripreso servizio dopo le ferie estive. Hanno iniziato a preparare, in riunioni collegiali, la ripresa delle lezioni, con il rientro degli alunni il 12 settembre. Hanno trovato alcune, poche certezze; due sostanzialmente: il calendario scolastico e il vademecum anti-Covid. Tutto il resto è incerto.

Al calendario si dedica un tempo di lavoro collettivo per apportare le piccole modifiche consentite, suggerite da qualche esigenza locale, e un tempo di lavoro individuale – di alcuni, non tutti – teso a individuare i “ponti” e a programmare come e quanto si possa riuscire a ottimizzarne il vantaggio in termini di vacanza, magari attaccandoci qualcosa per prolungarne la durata (non voglio dire un giorno di malattia).

Comunque il calendario c’è. Difficilmente ci saranno, in tempo utile – ecco una prima grande incertezza – gli orari effettivi (e definitivi) delle lezioni, perché almeno un quarto delle cattedre sono scoperte, e i 200mila e passa – per noi vecchi marxiani, novello esercito industriale di riserva – sono lì, come sempre, che aspettano la tardiva roulette delle assegnazioni, che se va bene arrivano in zona Cesarini, se no ai tempi supplementari. O se no, mai.

L’altra certezza è il vademecum anti-Covid stilato dal ministero. Dettagli a parte, tre i punti principali: niente mascherina, se non per studenti e personale a rischio; eseguire frequenti ricambi dell’aria; niente Dad (didattica a distanza) per chi prende il Covid: sta a casa e basta. Qui le incertezze sembrano limitate: prevedibile qualche problema in fase di applicazione, ma nel complesso sembra ragionevole.

Poi cominciano le sabbie mobili.

La fine del governo Draghi getta un’ombra di incertezza sull’attuazione delle riforme (sei) previste dal Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Forse riuscirà ad andare in porto per il rotto della cuffia la riforma degli Its, istituti tecnici superiori, che diventeranno Its Academy, altamente professionalizzanti e particolarmente orientati all’occupabilità. Alle altre cinque riforme – tra cui quella molto importante dell’orientamento – toccherà facilmente dire addio, almeno per il momento, perché manca il tempo se non anche la volontà politica di partiti con la testa e i muscoli in campagna elettorale.

A proposito: ci risiamo. Nei programmi elettorali delle forze politiche istruzione e formazione (e ricerca) hanno, come di consueto, una parte marginale. Non è la scuola un terreno su cui facilmente raccattare consensi. Non che manchino le proposte di riforma: in totale sono 38. Riforme di questo o di quell’aspetto. Qualche esempio. E occhio ai costi.

Nel centrosinistra è prevalente l’attenzione all’allungamento del tempo scolastico (contando anche mense e trasporti connessi), il costo annuo è sui 10 miliardi), e dell’obbligo (da estendere anche alla scuola materna, per il Pd: altri 3,6 miliardi).

Nel centrodestra prevale il favore per la meritocrazia (sì alla valutazione) e l’abolizione del precariato. Qui il costo sarebbe assai minore, c’è chi ha calcolato 800 milioni. Azione ha proposte simili. E poi libertà di scelta a mezzo buono scuola.

La sinistra-sinistra coi Verdi propone classi di non più di 15 alunni. Costo 8 miliardi e mezzo, esclusa la costruzione degli spazi che evidentemente non ci sono.

Tutti i partiti, in un modo o nell’altro, sono per alzare gli stipendi a non meglio precisate “medie europee”.

Il programma più tirato via sembra quello del M5s: ius scholae (come il Pd), più psicologi assunti per sostegno, e naturalmente aumento degli stipendi.

Vanno osservate tre cose. Primo: costi dell’ordine di 10 miliardi corrispondono a un aumento di oltre il 14% del bilancio attuale per la scuola, che è di 70 miliardi annui. Dal 2009 a oggi i governi che si sono succeduti (tutti, con qualunque maggioranza) hanno tagliato i soldi per l’istruzione: nel 2009 essa rappresentava il 4,9% del Pil, nel 2019-2020 il 3,9%. Nei piani del governo Draghi (sostenuto da tutti i partiti principali tranne Fratelli d’Italia) tale percentuale dovrebbe essere ulteriormente ridotta al 3,5% nel 2025 e al 3,2% nel 2035. Riduzione peraltro un tantino minore di quella prevista dal governo Conte (3,4% nel 2025 e 3,0% nel 2030). Quindi o qualcuno dice dove prendere i soldi, o le promesse elettorali sono, come quasi sempre, balle spaziali.

Quel che è peggio, è che non risulta da nessuna parte una visione sufficientemente organica e lungimirante. Solo su simili piattaforme sarebbe possibile aprire un serio dibattito pubblico, che coinvolga veramente gli operatori e le esperienze positive presenti nella scuola. E poi trovare il più possibile punti di convergenza solidi che consentano un processo di attuazione non continuamente vanificato dalle convenienze immediate di bandiera.

Quello che più spiace è non rintracciare una proposta che parta dagli studenti, dalla realtà viva dei ragazzi, e non semplicemente dalle esigenze del progresso economico, o peggio da pulsioni corporative e conservatrici con nostalgie anticapitalistiche.

“Se mi chiedete tre priorità per il governo rispondo con: educazione, educazione, educazione”. Così il laburista Tony Blair, nella campagna elettorale del 1997. Tra parentesi: vinse, e si installò al numero 10 di Downing Street ponendo fine a 18 anni di governi conservatori.

Partire dai ragazzi è quello che fa ogni bravo insegnante. Sapendo che nelle condizioni attuali metà di essi arrivano a fine studi impreparati, una percentuale inaccettabile abbandona, e due milioni di giovani non studiano e non lavorano (Neet). Fare i conti con questo è dovere primario della politica.

Poi occorre tutta la sapienza e la passione educativa degli insegnanti per comunicare ai ragazzi autostima, interesse alla realtà, gusto della conoscenza. E qui la politica è bene che non si impicci, se non – ma non è poco – nel creare le condizioni del massimo di autonomia scolastica e libertà di scelta (e risorse adeguate) perché la passione educativa possa mettere radici e portare frutto.

Nella scuola ci sono tanti punti vivi così. Guardiamo a loro, non al mugugno. Che se c’è speranza, viene dal basso.

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