Il presidente della maggiore azienda petrolifera privata russa si è “suicidato”. Di nuovo uno degli oligarchi contrari alla invasione dell’Ucraina che si è tolto “volontariamente” la vita. Putin è un genio nell’uso della post-verità, nella manipolazione strategica della confusione che permette di far sparire il senso della realtà.
Il mondo liberale ha preso coscienza del valore della distinzione tra falso e vero. Per parecchio tempo si è sostenuto che senza relativismo non c’era democrazia. Ora, questo relativismo è percepito come una minaccia. Alan Rusbridger, ex direttore di The Guardian, sostiene che “non si possono avere leggi, né votazioni, né governo, né scienza, né democrazia senza una interpretazione comune di ciò che è verità e di ciò che non lo è”.
Torna la verità, almeno come aspirazione. C’è però un problema. La maggior parte dei difensori della verità sono apostoli di una verità senza storia. Sono accompagnati da una sana ignoranza, non vogliono sapere come si costruisce una certezza. È una “santa incertezza”, una manifesta diffidenza nei confronti della libertà. Sostengono, di fatto, la sempiterna mancanza di una autorità esterna che eviti la confusione. Tendono, forse senza esserne coscienti, a contare sull’appoggio del potere perché “i diritti della verità” possano avere spazio.
Questo avviene mentre si espandono le “religioni pure”, quelle in cui è scomparsa la tensione fra fede e cultura, tra fede e storia. Nell’islam, per esempio, trionfa il salafismo. I suoi difensori, in nome del ritorno alla “autenticità”, impongono pratiche dei tempi di Maometto che hanno poco a che vedere con il cuore del Corano. Nel cristianesimo la formula si propaga con un evangelismo che prescinde dalle circostanze e con un cattolicesimo protestantizzato. Si sostiene che la verità deve essere proclamata “a ogni costo”. Non si può rinunciare a princìpi basilari, tutto quello che succede deve essere giudicato con criteri chiari per offrire un servizio alla società.
Sono formule, come dice Oliver Roy, che non rispondono, meglio, che concretizzano la secolarizzazione. Presuppongono che questi giudizi e questi criteri possano essere assunti, o perfino capiti, da una società che non conosce il cristianesimo, che non lo ha sperimentato. Separare l’avvenimento cristiano dalle sue conseguenze è l’origine della secolarizzazione, separare la verità dal modo in cui si fa strada nel tempo è privarla della bellezza. Ci troviamo di fronte all’espressione di una sfiducia, non si è sicuri dell’attrazione che suscita questa verità, della capacità che abbiamo di riconoscerla.
Non fu così all’inizio. Cosa sarebbe successo se Paolo avesse scritto una lettera a Filemone per spiegargli, in nome del giudizio che la verità esigeva, che era necessario abolire la schiavitù? I primi pensatori cristiani non dialogarono con la religione, ma con la filosofia greca nel punto in cui questa filosofia era arrivata nella sua ricerca della verità. Questo lavoro servì a capire meglio il valore della verità ricevuta.
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Rivoluzione francese era verità dalla prima all’ultima parola. Tuttavia non esprimeva una convinzione già conquistata e per questo si trasformò in uno schema da imporre. Sappiamo tutti ciò che è successo dopo. I padri fondatori della democrazia statunitense, tuttavia, ebbero la pazienza di assicurarsi che i valori che ispiravano la Costituzione del 1787 fossero stati accettati. È una Costituzione tuttora vigente.
Viviamo in un mondo che ha nostalgia e bisogno di verità, ma molti dei suoi difensori, con la loro santa incertezza, la rendono più difficile.
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