L’inflazione ha fra i suoi impatti elementari e generalizzati la riduzione del valore reale dei debiti nominali e degli interessi dovuti su di essi, a pieno svantaggio dei creditori. E fra i rapporti di debito-credito più rilevanti vi sono certamente quelli fra gli Stati e i risparmiatori nazionali e gli investitori globali che ne detengono titoli governativi.
Su questo versante è usuale guardare all’aumento accelerato dei prezzi come – anche – a una tassa: “la più odiosa”, soleva dire Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia dal 1980, quando l’inflazione in Italia toccò il picco storico del 21 per cento.
La tassa-inflazione è una patrimoniale “con altri mezzi”. Erode il valore capitale della ricchezza finanziaria delle famiglie e ne decurta i rendimenti qualora i meccanismi di remunerazione degli investimenti non rincorrano il deprezzamento della moneta (per i BTp ciò è avvenuto solo per le ultime emissioni “Italia”). Rozzamente: con un’inflazione al 10% e tassi che la Bce si accinge a rialzare (le attese sono per una quota massima del 2% entro il primo trimestre 2023) su un arco annuale il debito pubblico si diluirebbe fino all’8%, a spese di chi ha in portafoglio i BTp. Su questi ultimi ricadrebbe l’onere di una sorta di rimborso del debito. L’effetto sarebbe peraltro visibile sul più critico dei parametri di Maastricht: il debito/Pil, che per l’Italia ha già superato quota 150%.
Se il Pil nominale italiano incorporasse il ritmo dell’inflazione corrente, il debito/Pil migliorerebbe anche in caso di recessione (cioè di diminuzione del Pil reale). Si aggiungerebbe inoltre un altro effetto fiscale positivo per gli equilibri della finanza pubblica, anche se corrispondentemente negativo per i contribuenti. Con redditi nominali in aumento una struttura fissa di aliquote Irpef può produrre “effetti-draga” con un incremento del prelievo nominale e quindi un tendenziale aumento della pressione fiscale reale.
L’inflazione potrebbe quindi attivare di fatto quel prelievo straordinario – principalmente patrimoniale – che da anni molti, di volta in volta, suggeriscono o paventano per l’Italia. Sarebbe assai più la patrimoniale da sempre indicata all’Italia dall’Europa e dai mercati, attenti alla stabilità finanziaria del Paese piuttosto che a quella redistributiva a contrasto delle diseguaglianze socio-economiche (caldeggiata in via intermittente da M5S, settori del Pd e Sinistra Italiana). Sarebbe in ogni caso una manovra opaca, fonte potenziale di ulteriori sperequazioni: colpirebbe i risparmiatori in titoli pubblici del proprio Paese e i depositanti di liquidità nel sistema bancario e postale nazionale, esattamente come nel caso del prelievo diretto dello 0,6% sui conti correnti deciso in una notte dal governo Amato durante la crisi della lira nel 1992.
Un governo nazionale o un Consiglio Ue che indugiassero di fronte all’inflazione – anche solo lasciando alla politica monetaria della Bce l’intera responsabilità di raffreddare i prezzi – sarebbero sospetti di inseguire un “interesse pubblico” molto discutibile, colpendo in via sotterranea e sbilanciata gli interessi privati di milioni di cittadini.
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