Quest’anno, 2023, è il trentennale dell’ultima agonia della Prima Repubblica. E oggi, 16 gennaio, è il giorno in cui Oscar Luigi Scalfaro ne firmò l’atto di morte, nel successivo 1994: sciolse le Camere, nelle quali non avrebbero più rimesso piede i partiti democratici che avevano governato l’Italia nel periodo storico che va dal 1948 alla fine dell’Unione Sovietica, travolti da Mani Pulite. Rimasero in vita gli ex comunisti e gli ex fascisti, quelli che, finita la guerra, la democrazia liberale l’avevano accettata i primi per volere di Stalin, i secondi perché se no dovevano chiudere bottega. E poi la Lega, nata da poco, che ha fatto il suo exploit elettorale nel Nord Italia al tintinnio delle manette agitate come fossero lo spadone di Alberto da Giussano e al grido di Roma ladrona. Il 1993 è l’anno in cui quasi tutta la classe dirigente politica è inquisita (e irretita) dalla magistratura di Mani Pulite, cui i media si prostrano, e i vecchi partiti sono considerati come la peste. Oggi nessuno si chiama più partito, tranne il Pd. Berlusconi si prepara a interpretare il Nuovo che avanza e raccogliere il popolo dei moderati rimasto orfano di qualsivoglia rappresentanza politica.

Con i referendum del 18 aprile i partiti perdono il finanziamento e la legge elettorale del Senato si predispone al sistema maggioritario. Le preferenze – strumenti di espressione dei cittadini in nesso con realtà sociali e corpi intermedi – erano già state abolite nel ’91. Finisce il governo Amato e per la prima volta a Palazzo Chigi va un non politico: Carlo Azeglio Ciampi (precursore dei Dini, Monti e Draghi).

Ciampi guida la nave Italia su una duplice rotta: quella economica, le privatizzazioni; e quella politica, il bipolarismo. La cessione delle aziende di Stato (messa a punto nel famoso summit sul panfilo Britannia il 2 giugno dell’anno prima, presenti tra gli altri lo stesso Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, e Mario Draghi, direttore generale del Tesoro) avrebbe dovuto estinguere il debito e migliorare i servizi. Il bipolarismo avrebbe dovuto assicurare, con la democrazia dell’alternanza, il rinnovamento della politica. A conti fatti è facile constatare il fallimento di entrambi i disegni: il debito pubblico è cresciuto e lo Stato ha perso le leve strategiche dell’energia e delle comunicazioni (oltre al panettone Motta, passato dalla Sme-Iri alla Nestlé); la democrazia dell’alternanza è diventata la democrazia della rissa, del partito di plastica, del leader messianico (Berlusconi, Renzi, Grillo…), dei social… del massimo di disaffezione e di astensionismo.

Con tutto ciò, le basi istituzionali della nostra democrazia per fortuna finora hanno retto; abbiamo anche un governo politico di coalizione, eletto. Ma è la linfa delle nostra democrazia ad essere debilitata e la sua consistenza molto infragilita.

Rivedere l’assetto delle infrastrutture strategiche e l’assetto del sistema elettorale sono probabilmente due impegni opportuni in questo momento. Ma non basterebbe comunque a rimettere in buona salute la nostra democrazia. Perché, come ha scritto il filosofo Massimo Borghesi (Nuova Atlantide, n. 3, 2022) “…dopo il crollo dell’impero sovietico – la forza della democrazia viene fatta risiedere non più nel suo respiro ideale, personalistico e comunitario, ma nell’economia, nell’espansione del neocapitalismo finanziario e globalizzato”.

Dunque la vera grande urgenza riguarda “il respiro ideale e comunitario”. Perché ciò che ha indebolito la linfa della democrazia è il combinato disposto di tre fattori: il disorientamento ideale della persona, la dissoluzione delle comunità (o corpi intermedi), la trascuratezza della cultura sussidiaria.

Il respiro ideale significa la rinascita dell’io. Mikel Azurmendi, il grande studioso spagnolo, ha infatti rilevato una radice antropologica della fragilità della democrazia: “Il tipo umano che domina il panorama sociale è un individuo incapace di socializzare e impermeabile alla compassione, definito dalla volontà di potenza e dal desiderio di appropriazione”. Dall’omologazione di pasoliniana memoria al nichilismo maturo di oggi. Fossi la Chiesa, ci farei un pensierino: l’educazione alla fede è il suo peculiare percorso di educazione dell’io.

Il respiro comunitario significa la persona in relazione. Cioè inserita in forme di aggregazione sociali in cui il legame sia di sostanza, tra persone, e non effimero, solo per hobby o interessi. Affrontare con spirito comunitario i problemi educa alla solidarietà. L’Italia è il Paese del volontariato, il che non è una chance da poco, se ben orientata.

Infine la cultura della sussidiarietà. In realtà vive e operose nel sociale, la politica – la Comunità – e gli enti di governo, a partire da quelli locali, possono trovare un interlocutore fecondo nella identificazione dei bisogni e nella costruzione delle risposte. Recenti importantissime sentenze della Corte costituzionale hanno additato la strada di una cosiddetta “amministrazione condivisa”, in cui gli attori sociali siano coinvolti fin dalle fasi di studio e di progettazione degli interventi, e non solo come puri esecutori materiali.

È una strada che chi si impegna nella politica regionale e locale per amore del bene comune dovrebbe perseguire con determinazione, realizzando se possibile soluzioni che siano esempio da seguire.

E anche il voto sarebbe meno un biglietto della lotteria.

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