Il cristiano e il mistero della sofferenza

Chi si occupa professionalmente di sanità vede chi deve affrontare la malattia e il dolore. In questo sono utili le parole di Benedetto XVI

Alcuni avvenimenti che hanno caratterizzato l’abbrivio di questo nuovo anno, e in particolare i decessi del Papa emerito Benedetto XVI e di Gianluca Vialli, per via della necessariamente estesa e reiterata nel tempo copertura mediatica che hanno avuto, ci hanno posto davanti con crudezza, precisione e grande efficacia il tema della morte e dei suoi tipici compagni di viaggio (malattia, dolore, sofferenza), argomento che nonostante si riferisce a eventi che succedono con elevata frequenza tutti i giorni ma certamente senza raggiungere, salvo rari casi (chi non ricorda i camion con le bare dell’inizio della pandemia da Sars-CoV-2?), l’enfasi mediatica che ha caratterizzato l’inizio di questo 2023, molti purtroppo continuano a considerare un tema che disturba, un’eventualità di cui è meglio non parlare, un segreto da non far conoscere.

Per chi si occupa professionalmente di sanità e di salute, invece, l’affronto della malattia, del dolore, della sofferenza, e anche del suo esito infausto, assume necessariamente un altro spessore, e non solo perché è il vissuto di ogni giorno. Se da una parte non può limitarsi a essere l’oggetto pratico della propria attività quotidiana, una routine di gesti e azioni con cui si riempie la giornata lavorativa, dall’altra richiede innanzitutto “una singolare vocazione”, una missione si dovrebbe dire “che necessita di studio, di sensibilità e di esperienza”. D’accordo, ma detto ciò Benedetto XVI ci ricorda anche che non basta, perché “a chi sceglie di lavorare nel mondo della sofferenza vivendo la propria attività come una «missione umana e spirituale» è richiesta una competenza ulteriore, che va al di là dei titoli accademici. Si tratta della «scienza cristiana della sofferenza»”.

Pensavo al tema della morte e dei suoi compagni di viaggio una di queste sere, appena dopo avere messo le gambe sotto le coperte in quei di solito pochi (ma qualche volta tanti) attimi in cui si aspetta che Morfeo faccia il suo atteso e desiderato lavoro, riflettendo sulla giornata passata, su quello che era successo, su quello che mi potevo aspettare per l’indomani, su cosa mi stava insegnando ciò che era accaduto, e mi è venuto in mente un intervento che il Papa emerito, allora ancora Papa e basta, aveva fatto il 17 novembre 2012 in aula Paolo VI ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari (per la pastorale della salute), intervento che alcuni media hanno ripreso in questi giorni. Lo trovo così significativo che sia preferibile ascoltare cosa ci ha detto Benedetto XVI anziché proporre le mie riflessioni.

[Nota bene. Nel contributo qui riprodotto, per sole ragioni di brevità e facilità di lettura, sono stati espunti i saluti, iniziali e finali, e le molte voci bibliografiche citate a supporto dei testi virgolettati: l’intervento completo è disponibile qui]

“La Chiesa si rivolge sempre con lo stesso spirito di fraterna condivisione a quanti vivono l’esperienza del dolore, animata dallo Spirito di Colui che, con la potenza dell’amore, ha ridato senso e dignità al mistero della sofferenza. A queste persone il Concilio Vaticano II ha detto: non siete «né abbandonati, né inutili», perché, uniti alla Croce di Cristo, contribuite alla sua opera salvifica. E con gli stessi accenti di speranza, la Chiesa interpella anche i professionisti e i volontari della sanità. La vostra è una singolare vocazione, che necessita di studio, di sensibilità e di esperienza. Tuttavia, a chi sceglie di lavorare nel mondo della sofferenza vivendo la propria attività come una «missione umana e spirituale» è richiesta una competenza ulteriore, che va al di là dei titoli accademici. Si tratta della «scienza cristiana della sofferenza», indicata esplicitamente dal Concilio come «la sola verità capace di rispondere al mistero della sofferenza» e di arrecare a chi è nella malattia «un sollievo senza illusioni»: «Non è in nostro potere – dice il Concilio – procurarvi la salute corporale, né la diminuzione dei vostri dolori fisici… Abbiamo però qualche cosa di più prezioso e di più profondo da darvi… Il Cristo non ha soppresso la sofferenza; non ha neppure voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore». Di questa «scienza cristiana della sofferenza» siate degli esperti qualificati! Il vostro essere cattolici, senza timore, vi dà una maggiore responsabilità nell’ambito della società e della Chiesa: si tratta di una vera vocazione, come recentemente testimoniato da figure esemplari quali San Giuseppe Moscati, San Riccardo Pampuri, Santa Gianna Beretta Molla, Santa Anna Schäffer e il Servo di Dio Jérôme Lejeune.

È questo un impegno di nuova evangelizzazione anche in tempi di crisi economica che sottrae risorse alla tutela della salute. Proprio in tale contesto, ospedali e strutture di assistenza debbono ripensare il proprio ruolo per evitare che la salute, anziché un bene universale da assicurare e difendere, diventi una semplice «merce» sottoposta alle leggi del mercato, quindi un bene riservato a pochi. Non può essere mai dimenticata l’attenzione particolare dovuta alla dignità della persona sofferente, applicando anche nell’ambito delle politiche sanitarie il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà. Oggi, se da un lato, a motivo dei progressi nel campo tecnico-scientifico, aumenta la capacità di guarire fisicamente chi è malato, dall’altro appare indebolirsi la capacità di «prendersi cura» della persona sofferente, considerata nella sua integralità e unicità. Sembrano quindi offuscarsi gli orizzonti etici della scienza medica, che rischia di dimenticare come la sua vocazione sia servire ogni uomo e tutto l’uomo, nelle diverse fasi della sua esistenza. È auspicabile che il linguaggio della «scienza cristiana della sofferenza» – cui appartengono la compassione, la solidarietà, la condivisione, l’abnegazione, la gratuità, il dono di sé – diventi il lessico universale di quanti operano nel campo dell’assistenza sanitaria. È il linguaggio del Buon Samaritano della parabola evangelica, che può essere considerata – secondo il Beato Papa Giovanni Paolo II – «una delle componenti essenziali della cultura morale e della civiltà universalmente umana». In questa prospettiva gli ospedali vanno considerati come luogo privilegiato di evangelizzazione, perché dove la Chiesa si fa «veicolo della presenza di Dio» diventa al tempo stesso «strumento di una vera umanizzazione dell’uomo e del mondo». Solo avendo ben chiaro che al centro dell’attività medica e assistenziale c’è il benessere dell’uomo nella sua condizione più fragile e indifesa, dell’uomo alla ricerca di senso dinanzi al mistero insondabile del dolore, si può concepire l’ospedale come «luogo in cui la relazione di cura non è mestiere, ma missione; dove la carità del Buon Samaritano è la prima cattedra e il volto dell’uomo sofferente il Volto stesso di Cristo».

Cari amici, questa assistenza sanante ed evangelizzatrice è il compito che sempre vi attende. Ora più che mai la nostra società ha bisogno di «buoni samaritani» dal cuore generoso e dalle braccia spalancate a tutti, nella consapevolezza che «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente». Questo «andare oltre» l’approccio clinico vi apre alla dimensione della trascendenza, verso la quale un ruolo fondamentale è svolto dai cappellani e dagli assistenti religiosi. A loro compete in primo luogo di far trasparire nel variegato panorama sanitario, anche nel mistero della sofferenza, la gloria del Crocifisso Risorto.

Un’ultima parola desidero riservare a voi, cari malati. La vostra silenziosa testimonianza è un efficace segno e strumento di evangelizzazione per le persone che vi curano e per le vostre famiglie, nella certezza che «nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio». Voi «siete i fratelli del Cristo sofferente; e con lui, se lo volete, voi salvate il mondo!»”.

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Per chi si occupa professionalmente di sanità e di salute, invece, l’affronto della malattia, del dolore, della sofferenza, e anche del suo esito infausto, assume necessariamente un altro spessore, e non solo perché è il vissuto di ogni giorno. Se da una parte non può limitarsi a essere l’oggetto pratico della propria attività quotidiana, una routine di gesti e azioni con cui si riempie la giornata lavorativa, dall’altra richiede innanzitutto “una singolare vocazione”, una missione si dovrebbe dire “che necessita di studio, di sensibilità e di esperienza”. D’accordo, ma detto ciò Benedetto XVI ci ricorda anche che non basta, perché “a chi sceglie di lavorare nel mondo della sofferenza vivendo la propria attività come una «missione umana e spirituale» è richiesta una competenza ulteriore, che va al di là dei titoli accademici. Si tratta della «scienza cristiana della sofferenza»”.

Pensavo al tema della morte e dei suoi compagni di viaggio una di queste sere, appena dopo avere messo le gambe sotto le coperte in quei di solito pochi (ma qualche volta tanti) attimi in cui si aspetta che Morfeo faccia il suo atteso e desiderato lavoro, riflettendo sulla giornata passata, su quello che era successo, su quello che mi potevo aspettare per l’indomani, su cosa mi stava insegnando ciò che era accaduto, e mi è venuto in mente un intervento che il Papa emerito, allora ancora Papa e basta, aveva fatto il 17 novembre 2012 in aula Paolo VI ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari (per la pastorale della salute), intervento che alcuni media hanno ripreso in questi giorni. Lo trovo così significativo che sia preferibile ascoltare cosa ci ha detto Benedetto XVI anziché proporre le mie riflessioni.

[Nota bene. Nel contributo qui riprodotto, per sole ragioni di brevità e facilità di lettura, sono stati espunti i saluti, iniziali e finali, e le molte voci bibliografiche citate a supporto dei testi virgolettati: l’intervento completo è disponibile qui]

“La Chiesa si rivolge sempre con lo stesso spirito di fraterna condivisione a quanti vivono l’esperienza del dolore, animata dallo Spirito di Colui che, con la potenza dell’amore, ha ridato senso e dignità al mistero della sofferenza. A queste persone il Concilio Vaticano II ha detto: non siete «né abbandonati, né inutili», perché, uniti alla Croce di Cristo, contribuite alla sua opera salvifica. E con gli stessi accenti di speranza, la Chiesa interpella anche i professionisti e i volontari della sanità. La vostra è una singolare vocazione, che necessita di studio, di sensibilità e di esperienza. Tuttavia, a chi sceglie di lavorare nel mondo della sofferenza vivendo la propria attività come una «missione umana e spirituale» è richiesta una competenza ulteriore, che va al di là dei titoli accademici. Si tratta della «scienza cristiana della sofferenza», indicata esplicitamente dal Concilio come «la sola verità capace di rispondere al mistero della sofferenza» e di arrecare a chi è nella malattia «un sollievo senza illusioni»: «Non è in nostro potere – dice il Concilio – procurarvi la salute corporale, né la diminuzione dei vostri dolori fisici… Abbiamo però qualche cosa di più prezioso e di più profondo da darvi… Il Cristo non ha soppresso la sofferenza; non ha neppure voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore». Di questa «scienza cristiana della sofferenza» siate degli esperti qualificati! Il vostro essere cattolici, senza timore, vi dà una maggiore responsabilità nell’ambito della società e della Chiesa: si tratta di una vera vocazione, come recentemente testimoniato da figure esemplari quali San Giuseppe Moscati, San Riccardo Pampuri, Santa Gianna Beretta Molla, Santa Anna Schäffer e il Servo di Dio Jérôme Lejeune.

È questo un impegno di nuova evangelizzazione anche in tempi di crisi economica che sottrae risorse alla tutela della salute. Proprio in tale contesto, ospedali e strutture di assistenza debbono ripensare il proprio ruolo per evitare che la salute, anziché un bene universale da assicurare e difendere, diventi una semplice «merce» sottoposta alle leggi del mercato, quindi un bene riservato a pochi. Non può essere mai dimenticata l’attenzione particolare dovuta alla dignità della persona sofferente, applicando anche nell’ambito delle politiche sanitarie il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà. Oggi, se da un lato, a motivo dei progressi nel campo tecnico-scientifico, aumenta la capacità di guarire fisicamente chi è malato, dall’altro appare indebolirsi la capacità di «prendersi cura» della persona sofferente, considerata nella sua integralità e unicità. Sembrano quindi offuscarsi gli orizzonti etici della scienza medica, che rischia di dimenticare come la sua vocazione sia servire ogni uomo e tutto l’uomo, nelle diverse fasi della sua esistenza. È auspicabile che il linguaggio della «scienza cristiana della sofferenza» – cui appartengono la compassione, la solidarietà, la condivisione, l’abnegazione, la gratuità, il dono di sé – diventi il lessico universale di quanti operano nel campo dell’assistenza sanitaria. È il linguaggio del Buon Samaritano della parabola evangelica, che può essere considerata – secondo il Beato Papa Giovanni Paolo II – «una delle componenti essenziali della cultura morale e della civiltà universalmente umana». In questa prospettiva gli ospedali vanno considerati come luogo privilegiato di evangelizzazione, perché dove la Chiesa si fa «veicolo della presenza di Dio» diventa al tempo stesso «strumento di una vera umanizzazione dell’uomo e del mondo». Solo avendo ben chiaro che al centro dell’attività medica e assistenziale c’è il benessere dell’uomo nella sua condizione più fragile e indifesa, dell’uomo alla ricerca di senso dinanzi al mistero insondabile del dolore, si può concepire l’ospedale come «luogo in cui la relazione di cura non è mestiere, ma missione; dove la carità del Buon Samaritano è la prima cattedra e il volto dell’uomo sofferente il Volto stesso di Cristo».

Cari amici, questa assistenza sanante ed evangelizzatrice è il compito che sempre vi attende. Ora più che mai la nostra società ha bisogno di «buoni samaritani» dal cuore generoso e dalle braccia spalancate a tutti, nella consapevolezza che «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente». Questo «andare oltre» l’approccio clinico vi apre alla dimensione della trascendenza, verso la quale un ruolo fondamentale è svolto dai cappellani e dagli assistenti religiosi. A loro compete in primo luogo di far trasparire nel variegato panorama sanitario, anche nel mistero della sofferenza, la gloria del Crocifisso Risorto.

Un’ultima parola desidero riservare a voi, cari malati. La vostra silenziosa testimonianza è un efficace segno e strumento di evangelizzazione per le persone che vi curano e per le vostre famiglie, nella certezza che «nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio». Voi «siete i fratelli del Cristo sofferente; e con lui, se lo volete, voi salvate il mondo!»”.

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