Chiusa la finanziaria il Governo sta affrontando i temi delle riforme imposte dall’Europa, a partire dalla giustizia, che entreranno in vigore nei prossimi mesi. Nel frattempo il Paese va avanti ancora a fatica. I dati dicono che il mese di gennaio chiuderà con le prime avvisaglie di frenata nella crescita, con un saldo negativo in termini di crescita rispetto ad un anno fa di circa un punto. Oltre che all’inflazione, i cui morsi dureranno ancora tutto l’anno, pesa molto la scelta di non accelerare la spesa sul Pnrr. Ad oggi le unita di missione costruite da Draghi sono state smantellate e le nuove ancora non hanno carburato. Pesa anche la lotta intestina sui fondi e su come destinarli. La partita per l’autonomia differenziata sta per monopolizzare il dibattito in Parlamento ed i soldi da destinare in giro per l’Italia giacciono ancora non impegnati seguendo la liturgia di bandi, spesso deserti, costruiti in un diversa fase economica e con una visione che andrebbe almeno in parte rivista.
Ad oggi, nonostante tutto, è ancora enorme la massa di risorse aggiuntive da iniettare nell’economia, soprattutto nel Mezzogiorno. Al netto dei possibili aggiustamenti circa 220 miliardi in 10 anni andranno investiti, e quindi spesi, a sud di Roma. Ma la capacità tecnica del Mezzogiorno di prendere quei fondi, destinarli e spenderli è ancora ampiamente insufficiente. Il piano straordinario delle assunzioni voluto da Brunetta ancora non ha mostrato effetti. Le risorse umane necessarie, dagli architetti ai progettisti, necessari alla Pa del Mezzogiorno ancora non hanno preso servizio ed in generale la macchina amministrativa tutta è in deficit.
Il 2023 dovrebbe essere in questo un anno importante. Si attendono oltre 170mila nuove immissioni nella Pa a livello nazionale ma il numero, importante, potrebbe non essere sufficientemente ben distribuito. Come noto i fabbisogni di personale sono ancora legati a logiche per la maggior parte sostitutive. I pensionamenti di quota 100 degli anni passati non sono ancora stati recuperati e le carenze di medici, funzionari e dirigenti sono tali da mandare in crisi parti importanti della macchina amministrativa.
In questo contesto andrebbe privilegiata e vista con grande attenzione la copertura del fabbisogno di persone nel Mezzogiorno. Tante risorse umane sono sparite da comuni ed enti locali, tanti servizi non possono essere erogati perché il personale necessario non c’è. E tanti progetti del Pnrr non possono essere messi nero su bianco e presentati proprio a causa di questa carenza di teste pensanti. Su questo enorme limite il Governo pare non avere ancora le idee chiare.
A differenza di Draghi, che aveva ben chiaro il progetto europeo di aumentare il Pil del Mezzogiorno partendo dalla ristrutturazione della Pa e dei suoi bisogni, anche per essere più efficiente nell’agevolare gli investimenti privati, la Meloni ha con il Mezzogiorno un rapporto complesso. Ne conosce alcuni suoi esponenti ed ha al Governo alcuni governatori come ministri, ma pare non aver chiaro quanto la sua personale attenzione sul punto debba fare la differenza nell’indicare le priorità. Aver messo in discussione il reddito di cittadinanza non risolverà la crisi economica nel Mezzogiorno ed aver sposato politiche di chiusura all’immigrazione non porterà al lavoro i giovani disoccupati né renderà più efficiente il Paese.
Quello che serve è dare assistenza e priorità alla spesa dei fondi nel Mezzogiorno favorendo la rinascita di una classe dirigente basata su una burocrazia più giovane e competente che possa spendere, e bene, i soldi del Pnrr. Non potrà centralizzare le scelte né spendere direttamente da Roma i soldi che ha in tasca. La massa di denaro conservata per gli investimenti, i 220 miliardi, devono essere incanalati nel Mezzogiorno da un sistema adeguato di gestione della Pa che sia moderno ed efficiente e sopratutto rinnovato anche anagraficamente.
La Meloni potrebbe lanciare quel piano straordinario di assunzioni, che alcuni auspicano, rafforzandolo e rendendolo più rapido in modo da dare una scossa alla Pa e potrebbe, al contempo, agire su grandi progetti di investimento con poteri diretti di gestione per grandi progetti infrastrutturali. Unendo le competenze locali a quelle nazionali per arrivare all’obiettivo di spendere per tempo i soldi.
L’urgenza nasce da due fattori. Il primo è di certo l’urgenza che quei territori hanno di risposte concrete. L’attesa di una promessa che poi manca è la perdita di ogni speranza e produce un effetto depressivo sulla società. La seconda ragione per aver fretta è la necessità di supportare la crescita del Pil con investimenti aggiuntivi che fungano da moltiplicatore e facciano da volano alle imprese ed ai territori che ricevono la spesa consapevoli, anche, che in generale il sistema Paese ha tutto da guadagnare da una crescita del Mezzogiorno.
Ad oggi, l’afflato del governo per lasciare un segno “ad ogni costo” (come dichiarato dalla Meloni) sembra riservato ad altri temi, non alla coesione tra i diversi pezzi del Paese, con un concetto di Nazione che appare troppo spesso invocato solo con finalità di nostalgico omaggio a tempi passati piuttosto che come progetto per il futuro. Eppure l’occasione è ghiotta. Unire per davvero l’Italia con i soldi, tanti, che Draghi ha lasciato. Tutto potrebbe andare nel verso giusto, a meno che le intenzioni di parte della maggioranza non siano del tutto diverse, ovvero attuare una versione così spinta del federalismo da lasciare ognuno dov’è. Lo sapremo nel giro di pochi mesi. Tanto basterà a capire se la Meloni ha preso la direzione giusta per centrare un obiettivo storico o sarà stata la premier che rinuncia all’unità del Paese. Spetta a lei decidere quale sia il segno che vuole “ad ogni costo”. Poi la storia giudicherà.
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