“I nuovi parametri? Quattro, quattro, quattro”. Con una battuta in puro stile Davos – luogo di soft power mediatico per eccellenza – un banchiere statunitense ha indicato una nuova “trinità” di  stelle fisse in un cielo macroeconomico ancora molto perturbato. Inflazione, disoccupazione e tassi d’interesse: tutti a una quota d’orbita del 4%; almeno nel provvisorio “new normal” del 2023.

La “regola”, per la verità, non è del tutto verificata neppure negli Usa. Qui l’indice dei prezzi è ancora a livello 6,45% (ma è atteso in ulteriore discesa verso il 4% a fine anno); la disoccupazione è al 3,5%, ma se ne prevede l’aumento per via della stretta monetaria e creditizia decisa dalla Fed: che – per l’appunto – ha rialzato il suo tasso-base fino al 4,5% (forse per lasciarlo a questa quota per tutto il 2023, salvo poi valutare un ammorbidimento). Parecchio lontana dallo schema “4-4-4” è invece l’eurozona: l’inflazione è al 9,2% anche se in calo (e attesa fra il 4% e il 5% a fine anno anche a est dell’Atlantico); l’ultimo dato riguardo la disoccupazione parla del 6,5%, mentre sono ancora in piena zona-scommesse le mosse della Bce (il tasso-base del 2,75% sarà oggetto di rialzi – ha confermato a Davos Christine Lagarde -, ma non ne sono ancora prevedibili tempi e ritmi).

Quel che comunque pare assodato è che “nulla sarà più come prima”. E certamente è finita l’era dei “tassi zero”: con tutti i suoi pro (“denaro gratis” per i debiti pubblici e quelli delle imprese verso le banche) e i suoi contro (redditività tendente a zero per le famiglie risparmiatrici e i gestori di fondi d’investimento e fondi pensione). Ma è finita anche l’era dei “parametri per definizione”: quelli previsti dai Trattati di Maastricht nel 1991 per le finanze pubbliche dei Paesi Ue a protezione della nascente moneta unica?

I criteri europei  di convergenza sono sospesi da due anni per l’emergenza-Covid. Il loro ripristino era atteso nel 2023: anche se all’interno di un “cantiere di manutenzione” di cui la pandemia ha finora impedito l’apertura. Ora la crisi geopolitica sta prolungando una fase d’eccezione che pare rendere definitivamente obsoleti i tre numeri incisi sulla pietra di Maastricht: non solo il 3% di rapporto deficit/Pil e il 60% nel debito/Pil, ma anzitutto il 2% di inflazione massima annua ammissibile, codificato nello statuto Bce.

Premesso che tale parametro era stato mutuato tout court dalla cassetta di attrezzi (empirici) della Banca nazionale neozelandese, la macroeconomia reale spinge da un anno gli economisti a interrogarsi sulla significatività e gestibilità del tetto del 2%: anzitutto in un mondo “seminormalizzato” dalla regola “4-4-4”. La Fed, dal canto suo, ha già modificato il suo “inflation targeting”: alzando al 3,5% il limite superiore ammissibile, anche se prima della pandemia, in un contesto opposto rispetto all’attuale. La banca centrale del dollaro cercava spazi di manovra per nuove politiche espansive in funzione anti-deflazione (politiche poi effettivamente messe in campo durante la fase Covid).

Se anche nell’Ue il parametro-inflazione promette di essere ridiscusso, come potranno (inevitabilmente) cambiare gli altri due parametri? Se anche l’eurozona “cederà” sull’inflazione, risponderà con aggiustamenti restrittivi sulle finanze pubbliche?

Su entrambi i fronti la manovra 2023 mette l’Italia in mora: con un deficit/Pil al 4,5% e – soprattutto – con un debito/Pil ancora superiore al 144,6% (la media Ue è  a quota 86,4%). In questa situazione il Paese si accinge e sedersi al tavolo di “Maastricht-2” con poche carte da giocare: benché lo scenario  geopolitico stia profondamente modificando anche gli equilibri all’interno dell’Ue. Non è facile – nell’Europa “in guerra” del 2023 – che scattino verso l’Italia (e verso la Francia o la Spagna, non così diverse) i classici riflessi “parametrici” punitivi dell’Europa “frugale” verso quella “mediterranea”. Quelli che salvarono la Grecia nel 2015, ma a condizioni severissime.

È più probabile – oltreché auspicabile – che sullo stesso tavolo Ue vengano aperti assieme dossier diversi: come il futuro del Recovery Fund, il Next Generation Eu (transizione energetica e digitale) rivisto alla luce della crisi del gas e della nuova strategia degli aiuti pubblici lanciata dagli Usa; la messa in cantiere di una nuova Difesa europea; lo stesso ripensamento degli Accordi di Dublino sui flussi migratori.

Su un orizzonte allargato l’Azienda-Italia ha chance di avere più voce in capitolo (basti pensare ai ruoli di Eni e Leonardo). E ritroverebbe possibili margini di manovra sui fronti più problematici. Il primo pare annunciato: un impegno fermo e strutturato per un rientro strutturato e poliennale del debito, qualunque sia il nuovo parametro individuato. Sembra questa d’altronde la contropartita per un’altra innovazione cruciale nella governance finanziaria dell’euro: lo sviluppo del Mes da “fondo salva-Stati” passivo ed emergenziale in Agenzia del debito Ue, cioè di meccanismo controllato di emissione di eurobond.

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