Troppe pensioni o pochi lavoratori?

Al Sud, avverte la Cgia, il numero delle pensioni erogate supera quello dei lavoratori attivi che pagano i contributi. Il divario si amplia nel Mezzogiorno

Il bollettino dal fronte dell’economia italiana segna un dato di estremo interesse. Il rapporto tra occupati e pensioni erogate vede queste ultime in leggero vantaggio. Il numero di pensioni erogate è superiore a quello di chi lavora, 22,7 milioni i trattamenti pensionistici contro i 22,5 milioni di occupati. Ovviamente va ricordato che le pensioni erogate possono essere più di una alla stessa persona (ad esempio la reversibilità) e che nel calcolo non sono compresi i dati del reddito di cittadinanza, il che fa intendere quanto i valori siano suscettibili di altri trattamenti per avere una fotografia ancora più realistica.

Se infatti si cumulano i dati emerge che un lavoratore che produce reddito sostiene il peso di almeno due trattamenti pensionistici o assistenziali.

Eppure il numero di occupati assoluto è a livelli record, con oltre 22 milioni: mai come in questo periodo tanta gente lavora. Ma la crescita dello “stato sociale”, nella sua forma più  improduttiva, sta generando un vero e proprio sconquasso sociale. L’età media degli occupati, infatti, è oltre i 45 anni, la più alta d’Europa, ed il sistema si basa, in pratica, su di una generazione estremamente matura di lavoratori, lasciando fuori dal sistema produttivo i giovani.

E la prova è nei dati sul Mezzogiorno. A fronte di 7,2 milioni di trattamenti pensionistici erogati al Sud, gli occupati sono 5,9 milioni. Dati che raccontano due cose.

La prima è che la ripresa dell’occupazione non assorbe percentualmente i giovani del Mezzogiorno che sono fuori dal sistema produttivo e che queste risorse non sono coinvolte nel percorso di creazione di valore di quelle aree, alimentando la spirale assistenzialista che sta avvolgendo come un boa constrictor l’economia del Sud. La sussistenza nel Mezzogiorno si fonda su sussidi e pensioni e non su reddito e produzione.

Inutile dire che il Pnrr avrebbe dovuto intervenire su questa disomogeneità proponendo investimenti tali da colmare il gap territoriale, ma i progetti sono ancora in fase di avvio ed è ancora in attuazione il piano straordinario delle assunzioni nella Pa voluto da Draghi e Brunetta. Quei progetti di spesa, quella idea di rilanciare l’economia, sembrano sparite. La nuova idea è quella di investire le risorse quasi solo in infrastrutture fisiche, ma senza dare alcuna priorità territoriale, dimenticando che nel Pnrr vi era un preambolo alle politiche di spesa che partiva dalla presa d’atto della cronica carenza di risorse umane nella Pa nonché della carenza di formazione adeguata dei lavoratori inoccupati, carenza grave soprattutto nel Mezzogiorno.

Appare allora chiaro che invertire la rotta e rendere in futuro sostenibile il sistema Paese non è un obbiettivo realistico. Senza politiche di incremento degli occupati nelle aree depresse e senza un Piano straordinario di spesa per la formazione tecnica nel Mezzogiorno la strada è segnata. Tanto grave è la situazione che oltre mille sindaci del Sud sono pronti ad autodenunciarsi per l’impossibilità di erogare i servizi minimi previsti dalle leggi. Non hanno soldi in cassa, mancano personale e infrastrutture per offrire ai cittadini quello a cui avrebbero diritto.

Ma lo Stato sembra intenzionato solo a spendere in sussidi, senza dare fiato vero ad un progetto di rinascita del Mezzogiorno che ha bisogno immediatamente di recuperare la sua centralità nella visione di Paese. Pare, anzi, che si stia riaffacciando una egoismo territoriale che tende a colpevolizzare il Meridione basandosi su questi dati, utilizzando le inefficienze dello Stato nel Sud per giustificare le minori risorse che si intende destinarvi. Si chiede ad un territorio per anni menomato, spolpato delle sue energie migliori, emigrate altrove, di mettersi pari, ma senza dare alcun supporto concreto.  Lo Stato sembra non preoccuparsi di tante famiglie piccolo-borghesi, di tanti ragazzi che cercano la loro strada in tempi difficili, vessati da difficoltà territoriali e che pure insistono e resistono assieme ad un’imprenditoria ancora sana.

Molti media usano le devianze sociali, che nel Mezzogiorno albergano in una minoranza, per giustificare le politiche di reale depauperamento che la politica nazionale in modo più o meno chiaro sta imboccando. Se, infatti, tante pensioni sono pagate spesso a chi non ha versato contributi, se tanta parte dell’assistenza è pagata coi soldi di chi lavora, sarebbe del tutto naturale creare un’alleanza tra chi la mattina va al lavoro e produce (ovunque sia) affinché anche chi non vuole, e ci sono, o non può, e sono tantissimi, possa dare un proprio contributo e rimpinguare la quota di occupati a scapito di chi è fuori dal sistema produttivo.

Il fatto è che molti sono estranei al sistema produttivo poiché estranei ai circuiti di formazione e crescita professionale che possono aprire le porte al lavoro. E la carenza di formazione tecnica si accompagna ad un generale abbassamento dei livelli di cultura generale, attestato dai disastrosi dati delle prove Invalsi che certificano il fallimento delle formazione obbligatoria nel Meridione, territorio che in molte aree appare del tutto inadatto a creare la cultura di base che serva ai futuri cittadini.

In questo disastro le cose da fare sono semplici e tante. Assumere nella Pa figure tecniche in quantità per aumentare il livello dei servizi, finanziare in modo privilegiato i docenti e le scuole del Mezzogiorno impiegati in aree difficili, investire nelle infrastrutture scolastiche e universitarie, attuare un piano di formazione straordinaria degli inoccupati d’intesa con le imprese. Solo così il rapporto tra occupati e pensioni pagate si potrà invertire nel corso di un decennio. Altrimenti, con il calo gli occupati non resterà che ridurre le pensioni o eliminarle del tutto, facendo perire per sempre lo stato sociale. Al Nord, come al Sud.

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