Quel Bene che ci genera

A Vincent non è bastato l'affetto dei cari, neppure quello di 100mila followers. Una solitudine insopportabile lo ha indotto al suicidio. Ci salva solo un Altro

A Vincent non è bastato il bene e l’affetto dei suoi cari. A Inquisitor, così si faceva chiamare su TikTok, non è neppure bastato l’affetto dei suoi centomila followers che ne apprezzavano le gesta come giocatore di Call of Duty, come cosplay, come Ghost – il personaggio che interpretava in alcune sue dirette social. Pare che questo ventitreenne bolognese sia stato risucchiato in una spirale di accuse, forse supportate da alcuni screenshot messi ad arte in rete, che lo ritenevano colpevole di molestie ai danni di una diciassettenne.

Una storia strana, con tanti tratti ancora da verificare, che al giovane deve essere sembrata insopportabile tanto da portarlo alla decisione suprema, quella della morte. In diretta, su TikTok. La telecamera non lo ha ripreso nel gesto del suicidio, ma era accesa nella stanza e ha suscitato l’allarme di quanti erano collegati i quali, in un disperato tentativo di aiuto, hanno avvisato le forze dell’ordine e i soccorsi. Ma tutto è stato inutile, tutto è stato vano.

Che cosa può dare consistenza e forza ad un ragazzo? Che cosa può aiutarlo a stare in piedi di fronte ad una situazione in cui si sente braccato o trattato ingiustamente?

Sono in tanti a pensare che a questa nuova generazione di ragazzi serva più affetto o più parole, ma quello di cui loro hanno bisogno – in modo drammatico – è un’appartenenza, un rapporto cui sentirsi legati, che dia loro sostanza, che permetta a ciascuno di loro una coscienza di sé come “comunione”. La nostra società ha enormemente esaltato la domanda di libertà, ha creduto che la soluzione a tutti i problemi dell’uomo fosse nell’attribuirgli più diritti, più possibilità, più scelte. Nessuno nega il valore umano dell’esistenza e della necessità che ciascun individuo sia libero, ma la questione di fondo non è oggi quella della libertà, bensì quella dell’appartenenza. Vincent era libero, poteva fare quello che voleva, ma nessuno dei rapporti che viveva, per quanto pieni di cura e di autenticità, costituivano per lui un’appartenenza tale da reggere all’urto della vita.

Fa impressione come dovunque, anche nella Chiesa cattolica, il tema all’ordine del giorno sia che cosa si possa o non si possa fare, quale morale si debba o non si debba seguire. Si tratta chiaramente di preoccupazioni lecite, ma che non sfiorano neppure per un istante la questione ultima, quella dell’autocoscienza. O un giovane, un uomo o una donna, prendono consapevolezza di se stessi come del terminale di un bene e di un amore grande che continuamente li genera alla vita, oppure quell’uomo e quella donna restano soli, ultimamente soli, abbandonati a se stessi.

Diamo tante cose ai nostri figli: la casa, il conto corrente, le ore di baby sitting, i soldi per il tempo libero, la cura. Ma se non trasmettiamo loro un luogo, un’appartenenza, li lasciamo soli. Magari nella loro stanza, magari con una telecamera o con uno smartphone, magari dentro un gioco innocuo. Ma incapaci di restare in piedi davanti alla realtà che bussa, incapaci di rompere quella solitudine che – fin dall’inizio della storia – è la maledizione da cui Dio vuole salvarci. Il destino cui il Mistero vuole sottrarci. Sostituendo al nulla di tutti i giorni la decisione più grande: quella di un’inesauribile compagnia. Quella compagnia che è mancata a Vincent e che lo ha reso così fragile e così disperato da rifiutare, in uno slancio di tragedia, il dono più grande e più vero. Il dono della vita.

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