Dio cosa c’entra con tutto questo?

La preghiera e il digiuno sono il motore di un'ininterrotta grande presenza a tutto campo, generativa di pace e di bene

Mi sono augurato d’istinto, ma con tutto il cuore, che il giorno di digiuno e di preghiera proposto per domani dal card. Pizzaballa per la pace in Terra Santa ottenga la più ampia e consapevole partecipazione. C’è bisogno più che mai che il desiderio (non ridotto) e l’impegno (non fazioso) per la pace si incarnino in una testimonianza di popolo. Perché non si resti irretiti dallo sgomento e quindi lo spazio pubblico non sia occupato dagli ultrà, segnatamente dai filo-terroristi.

Ma, a pensarci bene, Dio cosa c’entra con tutto questo? Ci rimuginavo l’altro giorno mentre, combinazione, passavo in auto a Milano dalle parti di Porta Venezia, sfiorando nel tratto tra via Lecco e via Felice Casati, la chiesetta ottagonale di San Carlo al Lazzaretto. Essa fu costruita appunto al centro del vasto recinto che ospitava gli appestati, aperta su tutti i lati in modo tutti potessero guardare l’altare e il celebrante, cioè il punto sorgivo delle ragioni e del metodo della complessa e delicatissima opera. Felice Casati è il padre Felice de I promessi sposi, cappuccino, dunque francescano, direttore del Lazzaretto all’epoca.

La pestilenza del 1629-1630, è vero, non fu una guerra guerreggiata, ma non fu meno letale: uccise – peggio di Hamas – nel Nord Italia oltre un quarto della popolazione, cioè più di un milione su quattro. Inoltre, si scatenò una terroristica caccia al colpevole, sospetti e calunnie tra la gente, e un giustizialismo infame che mandò alla tortura e alla morte due innocenti: un ufficiale sanitario e un suo conoscente barbiere.

Dentro al Lazzaretto, fra i 16mila ospiti, ne successero di tutti i colori: furti, prostituzione, scontri, violenze, tanto che i Crociferi (ordine ospedaliero dei Camilliani) non ce la fece più a reggere e la Ca’ Granda chiamò proprio i Francescani, che – unici – vissero lì dentro per condividere totalmente i bisogni e portare la pace in quel macello. Con quale consapevolezza lo fecero, ce lo fa sapere il Manzoni nella pagina che riporta il succo della predica del nostro padre Felice. Essa ha tre punti chiave; 1) la morte non è l’ultima parola sull’uomo; 2) la vita è dono, degna della massima stima e rispetto, e i rapporto sociali rifioriscono nella carità; 3) occorre mendicare il perdono, battendosi il pugno sul petto proprio e non l’altrui.

Sempre i Francescani sono da secoli e tuttora forse i principali testimoni della fede e della carità in Terra Santa. Da quando San Francesco incontrò il Sultano nel pieno del conflitto alla missione di custodia dei luoghi santi, alle opere di carità, scuole e ospedali aperti a tutti, di ogni credo e nazionalità. Francescano – combinazione? – è anche Pizzaballa.

E “spirito di Assisi” è definita l’inedita corrente interreligiosa di preghiera e impegno per la pace creata da Giovanni Paolo II, nel 1986, appunto nella città del Poverello, proseguita poi dai suoi successori, Ratzinger e Bergoglio. Il grande Papa polacco indicò con chiarezza le ragioni dell’incontro di preghiera: “Un invito al mondo a diventare consapevole che esiste un’altra dimensione della pace e un altro modo di promuoverla, che non è il risultato di negoziati, di compromessi politici o di mercanteggiamenti economici ma il risultato della preghiera che … esprime una relazione con un Potere supremo che sorpassa le nostre capacità umane da sole”. E nelle conclusioni: “La pace dipende fondamentalmente da questo Potere che noi chiamiamo Dio, e che, come noi cristiani crediamo, ha rivelato se stesso in Gesù Cristo”.

Come questo investe la responsabilità di ciascuno? Sempre Giovanni Paolo II: “La pace è un cantiere aperto a tutti, non solo agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi. Essa è una responsabilità universale che passa attraverso mille piccoli atti della vita quotidiana. A seconda del loro modo quotidiano di vivere con gli altri gli uomini scelgono a favore della pace o contro la pace”. Parole, quelle di Wojtyla, che riecheggiano in quelle di Pizzaballa: “Non possiamo rimanere inermi”. Come pure riecheggiano le parole di padre Felice: “E non possiamo lasciare che la morte e i suoi pungiglioni siano le ultime parole da udire”.

Papa Ratzinger nel 2012, in circostanze analoghe ad Assisi 1986, osservò poi che la caduta del Muro di Berlino non bastò a garantire pace, giustizia e libertà; e mise in guardia dalle fonti più pericolose della violenza e dei conflitti, che sono a suo giudizio il terrorismo spesso ammantato di motivazioni religiose (s’intende, abusive) e, all’opposto, la perdita di Dio che produce perdita di umanità. E infatti, così è. Guerre dove non si fa distinzione tra combattenti e civili, dove sparisce ogni regola.

Tre anni dopo, nel 2014, papa Francesco ha voluto e ottenuto, fra le tante iniziative, lo storico incontro, nei giardini vaticani, tra il leader israeliano Shimon Peres e quello palestinese Abu Mazen. Preparò e organizzò l’evento, non a caso, Pierbattista Pizzaballa.

Rammentare queste cose può aiutare a comprendere come la preghiera e il digiuno siano, a fronte delle nuove esiziali pesti bubboniche di questo secolo, il motore – e insieme l’epifania, la punta dell’iceberg – di un’ininterrotta grande presenza a tutto campo, generativa di pace e di bene. A cui nel nostro piccolo possiamo e vogliamo appartenere.

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