“Gli occhi dei migranti: Dio mio, li avete mai guardati questi occhi? Avete cercato la felicità di vivere in quegli sguardi dove batte una forma di irrequietudine, di fremito, sofferenza e gloria?” Con queste domande recentemente Domenico Quirico sulla Stampa si rivolgeva a ministri e governanti, a chi è chiamato oggi ad affrontare il dramma dei migranti. Ma l’intensità con cui Quirico ha guardato quegli occhi, la pietà con cui si è lasciato commuovere da quella “irrequietudine” ha un respiro che va oltre quegli stessi volti. La cronaca, quella prossima e quotidiana, quella che i media con fulminea rapidità ci propongono, senza neanche lasciarci il tempo di un sospiro, di un attimo di pietà, è piena di fatti, di violenze, di brutalità di fronte a cui possiamo solo ringraziare se, almeno per un attimo, ci lasciamo inquietare da una domanda antica, quanto sempre più inevitabile: l’umano ha un valore? E quale è il punto ultimo di consistenza di questo valore? Non è una domanda astratta, è al contrario una domanda molto concreta. E non tanto perché apre questioni etiche, ma perché ci dà una prospettiva con cui guardare la nostra vita, prima ancora che quella degli altri.
Forse conosciamo quelle parole tratte dal pensiero LXVIII di Giacomo Leopardi “il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; (…) e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; (…) e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana”. Il poeta dunque indica nell’insoddisfazione il punto in cui consiste la grandezza dell’uomo. E un secolo dopo gli fa eco Pavese: “Mai ci arresteremo. Giungeremo alla fine che avremo ancora questi occhi di febbre che cercheranno, cercheranno sempre”. Circa due secoli fa Leopardi, un secolo fa Pavese, entrambi descrivono quanto di più attuale e contemporaneo possiamo rinvenire nella nostra esperienza di uomini dell’era digitale.
È vero! Niente ci basta. C’è come un sottile malessere che attraversa il quotidiano. Lo vediamo comparire con i tratti di quella stanchezza che ci capita di provare di fronte alle cose solite o ai rapporti ormai logorati dal tempo. Oppure quando una strana insoddisfazione ci assale, magari proprio dopo aver realizzato un progetto cui tenevamo tanto. E che cosa è poi quell’ansia, che sta contagiando sempre di più noi e i nostri giovani, di fronte al futuro, all’emergenza ambientale, al lavoro, allo studio? È come se quella febbre di ricerca di cui diceva Pavese non avesse più l’energia di muoverci, come se si fosse impoverita diventando stanchezza, ansia, ricerca di tranquillità. Ma siamo destinati a soccombere a questa “anestesia del desiderio” come la chiamava don Giussani, oppure possiamo trovare in qualche scintilla della nostra esistenza quella grandezza e nobiltà dell’umano di cui parla Leopardi? Perché in fondo l’esperienza, almeno di qualche momento della vita, ci dice che la rassegnazione non ci basta, che il cinismo di chi non aspetta più nulla non ci corrisponde, che la disperazione ci soffoca.
Tutti, almeno una volta, abbiamo provato il gusto che si sperimenta ad affrontare le sfide della vita. Ci si sente più umani. Si gusta la propria grandezza. Come ha insegnato don Giussani, “la formula dell’itinerario al significato ultimo della realtà qual è? Vivere il reale”.
Ci sono però momenti o circostanze della vita in cui il torpore lascia spazio ad una rinnovata energia, in cui sperimentiamo la vibrazione di quel desiderio che pareva essersi assopito nel fondo del nostro essere. È quando un bisogno, un dolore, un’emergenza viene a squassare la nostra tranquillità e a tirarci fuori dal cantuccio in cui avevamo cercato di rifugiarci. Ma anche quando, all’improvviso, veniamo ripresi da un interesse vero, da una rinnovata passione. Perché ci siamo innamorati o perché magari abbiamo deciso di buttarci in un’intrapresa che ci attrae. Ma quando il desiderio si riaccende è allora che “gli occhi di febbre” di Pavese si spalancano e non smettono di cercare il senso in ogni aspetto del vivere. Nel lavoro come nella politica, nello studio come nel fare famiglia o nel mettere al mondo figli, nel nascere come nel morire.
Questa è la bellezza del vivere, questa è la grandezza dell’umano. Anche perché in questo percorso in cui ci lancia il nostro inesauribile desiderio, può accadere di incontrare quelle che Pavese nei Dialoghi con Leucò chiama “le cose immortali” che abbiamo “a due passi”, ma che è “difficile toccare”.
Duemila anni fa è successo a ladri, prostitute, ciechi e malati, pescatori ed esattori delle tasse, di incontrare non una “cosa”, ma un “uomo” immortale, uno che camminava e mangiava come tutti, che è morto come tutti. Ma che dopo tre giorni è risuscitato. E aveva detto che lui era la strada per vivere, lui era la verità delle cose e il senso della vita. Chi lo aveva seguito aveva così gustato la propria esistenza da non desiderare altro che restare con lui. E oggi tanti uomini possono documentare che quella storia continua. Che lo stesso gusto del vivere abita non più solo nelle spiagge della Galilea, ma nelle nostre moderne città affollate, nei nostri grattacieli e (perché no?) nei nostri moderni spazi fatti di computer e robot. Ovunque ci sia qualcuno che attraverso altri uomini ha incontrato quell’uomo “immortale”.
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