“Quando abbiamo deciso che l’impegno nei confronti del nostro prossimo era un difetto e non una caratteristica delle nostre brevi e limitate vite?”, si chiede Xochitl Gonzalez, autrice di un articolo intitolato “Che fine ha fatto l’empatia? Ci siamo assuefatti alla sofferenza umana” apparso sull’ultimo numero della rivista The Atlantic.

Le immagini di morte e disperazione di esseri umani fragili e indifesi, sotto le bombe in Israele, in Gaza, in Ucraina, in Russia, o nelle periferie del mondo e di grandi città, si susseguono sui nostri schermi. E spesso, troppo spesso, anche di fronte a persone massacrate la nostra reazione è di indifferenza, freddezza, abitudine.

Non capita spesso di trovare analisi così lucide come questa su quanto sta accadendo nella vita delle persone.

Gonzales, riflettendo sull’involuzione delle relazioni umane, ripercorre la sua esperienza: “Avevo 24 anni e mi ero appena ambientata a New York quando gli aerei si sono abbattuti sulle Torri Gemelle. Quasi 3.000 persone uccise, mentre cercavano solo di fare il loro lavoro. Mi sono rannicchiata in lacrime con i miei colleghi e poi con la mia compagna di stanza. Non per paura, ma per puro shock e profonda empatia. Io e i miei amici non conoscevamo nessuno di loro, ma tutti loro sembravano conoscibili: il cameriere di Windows on the World, la segretaria e il commerciante di Staten Island, il pompiere di Sunset Park. Avevamo paura di prendere la metropolitana, ma andavamo a piedi o in macchina o in autobus per sederci nelle case e negli appartamenti degli altri. Tutto per non essere soli mentre si piangevano persone che erano estranee. Ma non lo erano affatto. Vent’anni dopo, un altro disastro. Non arrivò all’improvviso, ma fu veloce come una piaga. E si portò via non migliaia di vite americane, ma più di 1 milione, e 7 milioni in tutto il mondo. A differenza dell’11 settembre, la maggior parte delle persone conosce personalmente qualcuno che ha subito una perdita per il Covid. Eppure, questa volta, non c’è stato un vero e proprio tentativo di lutto nazionale. Possiamo incolpare il governo o il capitalismo o qualsiasi altra cosa, ma è difficile non vedere questo fatto come il riflesso di un cambiamento: una riduzione collettiva dell’empatia. (…) Non è certo la prima volta che metto in discussione l’empatia americana. Mi sento così ogni volta che un innocente americano di colore viene ucciso da un poliziotto e qualcuno inizia a parlare di secondo emendamento a poche ore da una sparatoria (…). Non possiamo, solo per un momento, provare compassione per le vittime?”.

Che cosa è successo in questi vent’anni? Secondo l’autrice, non c’è da sorprendersi. Infatti: “L’empatia si coltiva attraverso le interazioni con persone che non conosciamo bene, quegli scorci su altri mondi interiori. Negli ultimi due decenni, un’app alla volta, abbiamo ridotto notevolmente la nostra necessità di impegnarci casualmente con chi non conosciamo, o anche di impegnarci in modo significativo con chi conosciamo. A volte mi capita di pensare a tutte le persone con cui avrei potuto intrattenermi in una giornata tipica di soli cinque anni fa. Andavo al lavoro con la metropolitana, prendevo un caffè e chiacchieravo con il barista o arrivavo in ufficio e spettegolavo con i miei colleghi sulle loro vite. A pranzo, potevo fare due chiacchiere mentre aspettavo la mia insalata. A casa, prima di andare a letto, chiamavo un amico. Nei fine settimana, lasciavo il bucato in lavanderia e chiedevo come stavano i figli del proprietario (…). Non voglio elencare tutte le app che hanno cambiato questa situazione, ma è sufficiente dire che non c’è più bisogno di andare in ufficio per chiacchierare quando si può semplicemente fare Zoom tutto il giorno. Decine e decine di punti di contatto umano sono stati cancellati da ogni giorno della nostra vita. E abbiamo accettato questa cancellazione senza mai chiederci se fosse una buona cosa”.

Allontanandoci dalla vita, là dove accade, non dove pensiamo noi che debba accadere, ci stiamo rendendo sempre più insensibili a essa. Non solo per ciò che riguarda la sofferenza, ma anche nei confronti della gioia, del bello, del gusto.

Il punto non è, come viene detto anche nel pezzo citato, chiudere i nostri account sui social media e rinunciare alla tecnologia, ma tornare a ricostruire luoghi in cui incontrarsi, confrontarsi, aiutarsi, cercare di imparare. Solo così può tornare il desiderio di “alzare il telefono e chiamare un amico invece di apprezzare un post su Instagram”, o “chiedere a un collega di prendere un caffè ed esprimere curiosità sulla sua vita”. Abbracciare la nostra umanità e quella degli altri, perché “le persone che incontriamo e ciò che impariamo da loro potrebbero non solo sorprenderci, ma anche salvarci”.

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