Chiesero non come conseguenza di un animo curioso, ma perché colmi di quella malizia che li rendeva ipocriti allo specchio di Cristo. Che, puntualissimo, li smaschera in quattro e quattr’otto, trovando pure il modo di dirglielo in faccia: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?”. Lui vedeva qualcos’altro, vedeva qualcosa di più dietro quella semplice domanda. Coglieva il cuore del loro cuore che interrogava: “Tennero consiglio – infatti – per vedere come cogliere in fallo Gesù”.

Non è, dunque, dalle risposte che Cristo misura il grado di intelligenza dei suoi interlocutori, ma dalle domande. Da come pongono le domande: “È più facile giudicare il genio di un uomo dalle sue domande che dalle sue risposte” ci spiegò il prof di lettere ai tempi della scuola. I suoi avversari, farisei ed erodiani (che sono sempre un nome collettivo, in rappresentanza di tutti gli altri) manco la fatica di trovare risposta son disposti a fare. Di fronte alla libertà vorrebbero che fosse tutta loro ma, al contempo, che qualcuno dicesse loro come fare per non fare errori. Per non incappare in qualche castroneria compromettente.

A Cesare, insomma, “è lecito oppure no pagare il tributo?”. Qualunque sia la sua risposta, sarà comunque passibile di critica: se dice che è giusto pagare dazio ad uno Stato straniero, l’accusano di essere un idolatra. Se invece dice di no – che non è giusto pagare dazio – l’accuseranno di essere un istigatore della sedizione. Che fare, dunque?

Semplice per chi, come Lui, ben conosce il peso della libertà: restituisce loro la decisione, in base a ciò che sentono sobbalzare nel cuore. “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello ch’è di Dio” (cfr Mt 22,15-21): punto, a capo. “Pur essendo Dio, fratelli miei – sembra dire ai farisei e agli erodiani – non posso risparmiarvi il peso della scelta”. Per poi ripresentare la domanda sotto forma diversa: “Chiedetevi a chi appartenete e vi sarà chiaro il tutto. Provare per credere”.

A chi, forse, gli chiederebbe cosa significhi un verbo dalla bellezza simile, oggi prenderebbe a prestito le più belle parole mai scritte in materia di appartenenza: “Appartenere a qualcuno significa entrare con la propria idea nell’idea di lui o di lei e di farne un sospiro di felicità” (A. Merini). La vera meraviglia, il vero miracolo, è ancora il medesimo: appartenere a qualcuno che ti fa sentire libero. Loro, forse, confondono l’appartenenza con il possesso, ma Cristo cerca di far un distinguo netto: “L’amore, gente, non è mai possesso, semmai è appartenenza”: Che non pensino che Lui assomigli a Cesare nel suo comportamento. Cesare ragiona da perfetto Cesare: “O stai con me o non stai con nessun altro”. Dio, invece, ragiona da Dio: “Se non posso stare con te, non voglio stare con nessun altro”. L’amore non è conoscersi ma riconoscersi.

Cos’avranno capito, gli avversari, di questa sartoria intellettuale d’altissima fattura? Una cosa, se non altro: che l’Uomo di Nazareth non era affatto facile da ingabbiare come, forse, pensavano loro quando si trovavano per costruirgli dei tranelli. Eppoi, visto che una quota di intelligenza dimostravano di averla (si può essere intelligenti anche nelle malignità), se ne saranno tornati ai loro ghingherli intuendo che il senso di appartenenza ad un luogo, pensiero, storia o persona è una delle sensazioni più magiche e inspiegabili che si possano provare durante la vita. Poi, a seconda dell’appartenenza scelta, “ognuno lascia la sua impronta nel luogo che sente appartenergli di più” (H. Murakami).

Se ne ritornano a casa con la coda tra le gambe farisei ed erodiani? Più che con la coda tra le gambe, rincasano sentendo nelle mani il peso specifico della libertà come mai, forse, avevano provato prima d’allora. D’altronde, a conti fatti, il messaggio del Cristo è stato di una chiarezza tersa: non si appartiene a delle persone, si appartiene a dei momenti. Che certe persone rendono eccezionali. I momenti di Cesare e quelli di Dio: è a quei momenti che il cuore si affeziona. E sente d’appartenere.

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