Suhaila Tarazi ha o aveva l’ufficio vicino al parcheggio dell’ospedale al-Ahli, dove martedì sono morte centinaia di persone. Qualche anno fa Suhaila mi ha dedicato del tempo che non aveva. L’ho vista entrare in ospedale con un furgone bianco: è una direttrice molto ferma e molto tenera. Una donna al timone in un mondo di uomini. Una donna ortodossa, formatasi a Londra, orgogliosa della sua parrocchia di San Porfirio, che risale ai primi secoli del cristianesimo e sulla quale sono cadute anche delle bombe.

Al-Ahli era un’oasi nel centro di Gaza. Vicino al mercato, tra strade sporche dove gli abitanti girano senza nulla da fare, si trova l’ospedale fondato alla fine del XIX secolo da anglicani provenienti dagli Stati Uniti.

Mentre passeggiavamo per giardini puliti e per ambulatori pieni di bambini, Suhaila mi ha detto che non aveva paura della morte, che la sua vita non era nelle mani né dell’uno né dell’altro, ma nelle mani di Dio. Era orgogliosa di seguire Cristo tenendo aperto un luogo in cui i poveri, malnutriti dal blocco, potessero essere curati. Le ho chiesto più volte perché non se ne andasse e mi ha risposto che se Gesù fosse tornato era necessario che ci fosse almeno un cristiano in Terra Santa che lo accogliesse.

Suhaila è ancora viva dopo martedì scorso. Una vita offerta gratuitamente, in un modo che spezza misteriosamente l’irrefrenabile catena di vendetta che insanguina Gaza e Israele in questi giorni. Anche alcune madri dei giovani crudelmente assassinati da Hamas hanno chiesto che non ci sia vendetta, che non si educhino i bambini all’odio. La vita devota di Suhaila e la posizione assunta da queste madri, che hanno perso i loro figli, hanno un valore sociale e storico decisivo per un conflitto che dura da più di 70 anni. Un conflitto che affonda le sue radici in una tragedia irrisolta. Come tante altre.

Molto spesso, di fronte al sangue versato, l’unica riparazione che sembra soddisfacente è quella di versare il sangue del criminale. La vendetta si presenta come una rappresaglia, e ogni ritorsione causa nuove rappresaglie. Molto spesso, la vendetta è un processo infinito e senza fine. La vittima è una vittima perché è considerata colpevole. La possibilità di una vittima innocente non è ammessa. Il terrorista attacca i civili perché li considera colpevoli dell’occupazione, l’esercito dichiara guerra ai civili perché sono tutti terroristi o amici dei terroristi. Ecco perché lo stato di diritto in un Paese sovrano è così prezioso e, per questo motivo, il diritto internazionale ci dà un forte senso di impotenza.

Il sistema giudiziario allontana la minaccia della vendetta. Ma non la sopprime, la limita a un’unica rappresaglia, il cui esercizio è lasciato allo Stato. Il principio rimane lo stesso: si cerca di ottenere giustizia, in questo caso con una violenza controllata. In entrambi i casi, si applica lo stesso principio di reciprocità violenta, di punizione. Il diritto penale e il sistema giudiziario frenano fortunatamente il pericolo di un’escalation. Ma non riparano l’ingiustizia subita dalla vittima.

Abbiamo bisogno di una vittima veramente innocente che spezzi la catena, una vittima innocente che vada oltre un sistema giudiziario punitivo, basato sulla violenza controllata o incontrollata. In realtà, la vittima colpevole non può rinunciare al suo desiderio di giustizia, al suo desiderio di riparazione Sarebbe disumano e immorale. Non si può fare giustizia con l’ingiustizia. Ma la giustizia viene fatta solo quando chi ha subito il male trova una riparazione che lo soddisfi completamente. Una riparazione, una risposta che permetta di non dover creare nuove vittime.

Nelle icone della parrocchia di San Porfirio, Suhaila ha imparato tutto sul volto della Vittima innocente riparata dal Padre dopo essere stata giustiziata.

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