Questi erano fissati con le regole in maniera compulsiva: come trattare le mani, i gomiti, l’avambraccio, l’unghia, l’alluce (valvo). Eppoi i cibi da scuocere a tot gradi, da conservare sottovuoto, le scarpe da pulire prima di entrare in casa. Mille corbellerie che per loro, però, valevano una verità: che la Verità passasse attraverso il rispetto di quelle regole. Che, essendo in numero di centinaia, ogni tanto diventavano anche un bellissimo nascondino. Di più: correvano il rischio di diventare il palcoscenico ideale per giocare a nascondino anche con Dio. Che, da gran giocatore d’azzardo con il cuore umano, se ne stava giusto in disparte ad aspettare la mossa decisiva: “Si stancheranno anche delle regole un giorno – pensava tra sé -. Se non aprono la scatola del gioco e non iniziano a giocare, che gusto ci troveranno a imparare a memoria le istruzioni d’uso e basta?”.
Poi, se qualcuno gli chiedeva perché Lui non si divertisse come loro, rispondeva con il suo tono: “Quando avete finito di imparare e di ripetere le regole, chiamatemi: a me interessano le eccezioni. Sarò sempre di quelli che vivranno al di sopra di qualsiasi riga. E insegnerò a fare questo, per semplificare la vita”. D’altronde lo diceva anche il nonno, che era per me il rabbì (minuscolo) di casa: che quando le regole sono chiare, le eccezioni si possono fare. Anche perché, a dirla tutta aggiungerebbe il Rabbì (maiuscolo), sono tutti lì a invocare le regole precise e ben definite, ma poi in pochi sanno rispettarle. Perché tra una regola e l’altra ci si infila sempre il proprio interesse. Dicendo di rispettare formalmente le regole.
Quando lo chiamano – “i farisei, avendo udito che aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova” – lui accetta l’invito e scende dentro l’arena. Anche stavolta, però, la domanda è sporca, parte male: lo interrogano per incastrarlo. Una volta ancora lo vogliono mettere nel sacco, mentre Lui è disposto a farsi mettere sulla croce: l’esatto opposto del sacco. (Ri)tentano, comunque: “Maestro, nella legge qual è il grande comandamento?“. La domanda è vestita di una dosa di malizia da cavallo: “Vediamo se conosce tutti i comandamenti, Lui che dice d’essere un Rabbì”.
E Lui – mai dire gatto finché non ce l’hai nel sacco – ancora una volta a risplendere sopra quel fango. Come un alunno spettacolare che, interrogato dal professore a scuola, dimostra di possedere quell’arte che, molto più di risposte imparate a memoria, indica l’intelligenza di una persona: la capacità di costruire una sintesi. Di fare sintesi, prendendo gli oltre seicento precetti e concentrandoli in un bignami tascabile: “Amerai il Signore tuo Dio (…) E il secondo è simile a quello: Amerai il prossimo tuo come te stesso“. Praticamente, con una sorta di nonchalance che riesce soltanto a Dio, fece loro capire che, a forza di rispettare tutti i precetti che dovevano rispettare, erano diventati come galline in gabbia, o sardine nella rete: spendevano ore, giorni, stagioni e decenni a osservare una quantità di roba che li distraeva. Erano come scrittori che, desiderosi di scrivere un romanzo, insistevano ad ammassare in maniera seriale materiale, indagini, testimonianze, spunti e appunti per poi accorgersi, un giorno, che avevano fatto indigestione di parole e non riuscivano più a capire come concretizzarle dentro una pagina bianca. Per questo Lui, senza umiliare nessuno – non disse mai che avevano perso tempo, ch’erano imbecilli, che erano andati fuori tema. Lo fece capire! – si mostrò ai loro occhi come la prima riga di una pagina: liscia, pulita e bellissima. E diede loro la chance di non avere più scuse che c’era tanta roba da memorizzare. “Tenete il succo, gettate le bucce d’arancia”: punto a capo.
Con quel “è simile a quello” (cfr Mt 22,34-40) ch’è il valore aggiunto: l’uomo, da ora, varrà tanto-quanto Dio. Geniale: per amare Dio non occorrerà diminuire l’uomo. Anzi: Dio si ama attraverso l’uomo. O non si amerà. E dire all’uomo che assomiglia a Dio è il più bel complimento che gli si possa rivolgere. È come dirgli ch’è unico.
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