Quando facevo le medie, alla domanda “che cosa vorresti fare da grande?” la mia risposta era “l’archeologa”. Poi ho fatto altre scelte, ma di questo periodo di passione per l’antichità è rimasto uno scaffale della libreria pieno di testi sui popoli antichi, che ogni tanto rileggo, devo dire, con immutato piacere. Ho recuperato abbastanza casualmente alcune informazioni sulla scuola presso i Sumeri, che vi offro per un confronto solo in parte scherzoso. La scuola era considerata di estrema importanza, in quanto era fondamentale per il buon funzionamento della società: di conseguenza i maestri avevano un ruolo fondamentale, lauti guadagni e un elevato prestigio.
Il maestro era chiamato “il padre della scuola”, il suo assistente “il grande fratello” e lo scolaro “il figlio”, ma la terminologia affettuosa non escludeva la severità dei metodi: una tavoletta del 2000 a.C. riporta le lamentazioni di uno scolaro presumibilmente poco diligente che, qualsiasi cosa faccia, viene bastonato, per cui conclude mestamente “io odiavo l’arte dello scriba”! Il padre del nostro povero Pierino però non prende le sue difese: o meglio, cerca di accattivarsi il maestro con doni e manifestazioni di stima, e il maestro, lusingato, non solo gli rivolge i migliori auspici, ma conclude dicendo: “tu conosci un padre: io sono secondo dopo di lui”. Lo scolaro svogliato accetta le regole della scuola, diventa un dotto e la dea della cultura “dispose la sua superiorità”.
Anche se non sono particolarmente addentro nel funzionamento della scuola a Ur o a Lagash, ho come l’impressione che l’insegnante di Campitello Matese o di Sumirago pensi ancora a se stesso in questi termini: con un ruolo sociale fondamentale, che comporta prestigio e ricchezza. La percossa sistematica allo scolaro infingardo, anche se sarebbe probabilmente gradita, non viene presa in considerazione non solo per motivi pedagogici ma per timore di ritorsioni da parte di genitori che, lungi dal fornire olio aromatico e nastri di seta, tendono piuttosto ad accusare i docenti dello scarso successo dei propri figli, relegandoli a un ruolo secondario di “quasi liberi” (in accadico mushkenu, da cui il nostro “meschino”) appena un gradino al di sopra degli schiavi. La scuola come ascensore sociale funziona benissimo, purché se ne accettino le regole.
Oggi la situazione è profondamente cambiata, ma è cambiato anche il rapporto fra giovani e adulti. Continuiamo con le citazioni (prometto che la prossima volta me ne asterrò!). Scrive nel 1976 Luigi Meneghello, nella prima pagina di Fiori italiani, un testo dedicato all’educazione del protagonista, S., nato nel 1925: “Ho pensato per la prima volta in confuso a questo libro nell’estate del 1944, per terra davanti all’imboccatura di una grotta in Valsugana, avvertivo con una sorta di pigrizia intelligente che questa veniva ad essere la conclusione dell’educazione che avevamo ricevuto: in generale, ma soprattutto in senso stretto, a scuola. Che cos’è un’educazione? Avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’è una diseducazione”.
L’educazione è il frutto di un incontro: l’adulto diventa tale confrontandosi con persone che gli fanno una proposta precisa, non solo con le parole o con i fatti, ma con l’essere quello che sono. L’incontro è inevitabilmente una proposta, carica di suggestione, che indica un futuro desiderabile e carico di significato, che spinge il ragazzo a mettersi in gioco, ad appassionarsi: banalmente, credo che tutti noi abbiamo provato interesse o rifiuto per una materia per le caratteristiche del professore che la insegnava.
Meno banalmente, alcuni incontri ci hanno spinto a rivedere completamente, e a volte faticosamente, la scala dei nostri valori. Come dice Meneghello di Antonio Giuriolo, l’uomo che considera il suo maestro, “l’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci è capitata nella vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico effetto di rovesciamento) la conclusione della nostra educazione”. Quattromila anni fra lo scriba sumero e l’intellettuale vicentino, fra il tecnico che insegna solo cose utili per ricavarne egli stesso un profitto, e un uomo colto, di una cultura attiva che ha per obiettivo lo sviluppo globale della persona. Riflessioni a ruota libera, ma sia pure superficialmente, se ne tiene conto nella formazione degli insegnanti?
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