Dare quello che non si ha

Ogni "sistema" oggi è in crisi. La svolta può venire solo dalle persone che vivono in relazione, da loro amore e dal loro gusto per la vita

In un momento così incerto e caotico, cerco di trattenere alcuni fatti che possano aprire prospettive e illuminare il percorso. “Il vero male sociale non è tanto la crescita dei problemi, ma la decrescita della cura”, ha detto papa Francesco pochi giorni fa a Marsiglia.

Tutti stiamo sperimentando, ad esempio, l’affanno del sistema-Paese nel tutelare “la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32 Cost.). Una grande democrazia non può venire meno a questo compito e certamente non possiamo accettare l’ipotesi o il dubbio che, come ha scritto Michele Serra, i costituenti siano stati troppo ottimisti e ambiziosi nell’aver fissato principi così alti di convivenza.

C’è però un problema, in prospettiva, molto più grave della debolezza di un “sistema”. Consiste in un’idea di noi stessi, in una mancanza di energia e di iniziativa, anche piccola, ma concreta verso i bisogni collettivi. L’individualismo sta rappresentando una forza davvero distruttiva.

Umberto Galimberti fa risalire l’individualismo al Cristianesimo perché ha messo l’accento sul valore di ogni singolo “io”. In questo modo sottolinea la contrapposizione del valore della persona a quello della collettività, senza tener conto che il Cristianesimo non nega la natura profonda degli esseri umani che è quella di essere relazione.

Lo stesso giorno in cui ho letto la frase del papa, mi è capitato di ascoltare alla televisione una breve intervista a un volontario di Lampedusa intento a cucinare per un gruppo di profughi appena sbarcati sull’isola: “la carità non è dare quello che si ha, ma quello che non si ha. Se non hai tempo, lo trovi”.

Allora ripenso a tanta resistenza a farsi ferire dalla sofferenza altrui, a tanto disinteresse per la fine ingiusta di troppe vite umane, a causa della guerra, o di stupidi giochi, o della disperazione.

In Canada, lo scorso mese di maggio, il 28% dei cittadini si è dichiarato favorevole all’ipotesi di approvare il suicidio assistito richiesto da persone senza dimora, in salute e il 27% per persone che vivono in condizioni di estrema povertà.

La morte e la vita sembrano elementi di un paesaggio che rimane sullo sfondo lasciando entrambi ugualmente indifferenti.

Penso anche all’esercito di anziani in aumento. Al bisogno non solo di compagnia e di cura, ma di verità sul loro valore, in un tempo in cui la vita è sottoposta al parametro della convenienza economica.

C’è senz’altro un problema di cambiamento di paradigma economico, in cui l’alternativa al mercato è una percezione dello Stato che comprende tutti e in cui tutti si sentono partecipi (si chiama sussidiarietà). Ma c’è innanzitutto da vincere la mancanza di amore e di gusto per la vita. Tra l’analisi del problema e la risposta, c’è nel mezzo una persona che si muove e si coinvolge.

Tra i fatti che hanno aperto una nuova prospettiva nella mia mente in questo periodo c’è quello di Antonella Di Bartolo, preside di una scuola di Palermo che, insieme ai suoi insegnanti, è riuscita a portare la dispersione scolastica nel suo istituto dal 27,3% all’1%, “semplicemente” andando nelle case a parlare con i genitori.

Credo che questa preside e questi insegnanti abbiano ben presente che cosa sia quel qualcosa in più di cui parlava quell’uomo di Lampedusa.

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