“Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra”. Non ha perso di attualità, anzi, il monito che papa Pio XII lanciò con un radiomessaggio da Castelgandolfo alle 19 del 24 agosto 1939. Non gli diedero retta, tutti – come quasi sempre – credevano nella forza, e così una settimana dopo Hitler, d’accordo con Stalin, invase la Polonia e furono sei anni di devastante guerra mondiale.

Gli diedero retta i tre grandi illuminati (e cristiani) statisti – Schumann, Adenauer, De Gasperi – che vollero un’Europa comunitaria. Solo loro, o quasi solo loro. Perché bisogna saperlo prima che una volta innescata una guerra è difficilissimo fermarla: vedi Ucraina, Nagorno Karabakh, tante altre situazioni e, naturalmente, Israele-Palestina. E quindi bisogna fare tutto il possibile per costruire “prima” le condizioni per scongiurare il conflitto. Non serve a granché il pacifismo ex-post, di cui peraltro si sono perse le tracce e anche le bandiere arcobaleno, ingaggiate da tutt’altra causa.

Quelli che lo sanno prima, che dopo, con la guerra, tutto è perduto sono i testimoni costruttori di pace (grandi o piccoli che siano): uomini e donne che accettano il sacrificio in nome di un ideale di bene, di libertà e di giustizia per il popolo e tra i popoli. A essi è bene guardare, ed è auspicabile che i media aiutino ad orientare l’attenzione della gente.

Una di queste figure è la recentissima Premio Nobel Narges Mohammadi, 51 anni, iraniana, ingegnere e attivista (pacifica) per i diritti umani e la dignità delle donne nella Repubblica islamica degli ayatollah sciiti, arrestata arbitrariamente 13 volte, condannata a oltre 30 anni di carcere e a 174 frustate, detenuta dal maggio del 2016. Non vede i suoi figli, due gemelli di 17 anni, da otto anni. Ha detto il fratello: “Sono trent’anni che Narges ha messo da parte la sua vita per un progetto più grande, la libertà del suo popolo”. Lei dal carcere ha trasmesso un messaggio: “Non smetterò mai di lottare. Il premio mi renderà ancor più determinata, fiduciosa ed entusiasta, mi aiuterà a sentirmi in pace a fianco delle madri dell’Iran”. Non si fa illusioni su quello che l’aspetta.

In carcere, e in totale isolamento, si trova un’altra donna, Aung San Suu Kyi, 78 anni, molto malata, premio Nobel per la Pace 1991: la donna che ha riportato la democrazia nella Birmania sotto dittatura militare dal 1962. Tra l’89 e il 2010 trascorse quindici anni in carcere; vinse le elezioni nel 1012 e nel 2015, fu deposta da un colpo di Stato militare nel 2021 e messa in carcere. La sua casa è stata sequestrata e messa all’asta; non può ricevere lettere né visite, neppure del figlio, 46enne, che sta girando l’Europa nel tentativo di scuotere l’oblio e l’indifferenza ormai calate nei suoi confronti.

Una terza figura viene in mente, anche se non è un Nobel (ma ha ricevuto il Premio Sacharov dall’Unione Europea): si tratta di Alexei Navalny, 47 anni, il più noto dissidente e oppositore di Putin. Arrestato tre volte nel 2017 per manifestazione non autorizzata, poi avvelenato nel 2020, ma sopravvive, riesce a farsi curare e riabilitare in Germania. Nel 2021 decide coraggiosamente di rientrare in patria: arrestato come mette piede all’aeroporto di Mosca da poliziotti in assetto antisommossa e condannato a due anni e rotti. Nel 2022 nuova condanna a 9 anni, sempre per motivi politici, con successivi passaggi i 9 anni diventano 19. L’hanno messo in cella di punizione 16 volte perché “si dimostra incorreggibile”. Rischia una nuova pena di 35 anni per “estremismo”.

“Ho già detto tante volte” ha risposto a precisa domanda “che l’odio è la cosa più importante da vincere qui in prigione, perché se si dà all’odio la libertà ti ucciderà e ti divorerà”. E in un messaggio nel giorno del suo compleanno, ha confidato: “Ovviamente vorrei non svegliarmi in questo buco, ma fare colazione con la mia famiglia, dare un bacio sulla guancia ai miei figli, aprire i regali e dire wow, è proprio quello che stavo sognando. Ma la vita è così: si può ottenere un progresso sociale e un futuro migliore solo se un certo numero di persone è disposto a pagare un prezzo”. Lui sa che, anche se non formalmente, la sua condanna è a vita: “Se mi uccideranno non arrendetevi”.

Bisognerebbe tenere davanti agli occhi questi esempi, perché l’amore al vero e al bene prevalga almeno un po’ su tanto quotidiano cedimento all’utile immediato, e al futile, o al conflitto (magari da condominio). Senza dedizione a un ideale la vita instupidisce e i prepotenti hanno vita più facile.

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Bene. Navalny è pressoché scomparso dai radar. San Suu Kyi è scomparsa del tutto. Quanto a Narges Mohammadi ha dovuto giocarsi gli spazi con i Ferragnez. La sua foto in prima, in un giornalone che non vi dico, era grande meno della metà di quella riservata alla coppia rapper convalescente-influencer mano nella mano con ombelico esposto in favore di telecamera. E dentro, par condicio, due paginate a testa.

Sono sicuro che la maggior parte dei lettori ha letto tutto sulla salute malcerta del pluritatuato, le sue analisi del sangue, la moglie che gli è stata vicina, come va il pancreas, e poi ha guardato con commozione la foto intitolabile “quattro persone e una zampa”: la manuccia di lei trattamento estetista, la manottona di lui tuttotatuaggio, le manine dei due bimbi “nature”, e sempre “nature” la tenerissima zampetta impellicciata della cucciola Golden Retriever “Paloma”.

Il giorno dopo, i “seguiti”. Sul fronte iraniano-mediorientale, la foto terribile di un esplosione nell’attacco di Hamas a Israele che sembra Apocalypse Now. Teheran plaude al terrorismo e intanto dall’Onu le è stata affidata la presidenza di una forum del Comitato per i diritti umani. Non c’è più neanche l’Onu di una volta.

Sul fronte Ferragnez… non pervenuto. Qualche volta la realtà (ahimè, atroce) prevale sul futile. Fino alla prossima futilità. Che tanto ci piace, perché gradevolmente ci anestetizza e ci aliena.

Ecco, i costruttori di pace sono quelli che nel loro vivere non cedono la dignità del cuore (amore al vero e al giusto) per un piatto di lenticchie. O per una ciotola di crocchette.

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