Nell’arco di cinque giorni – a cavallo dell’ultimo fine settimana – una raffica di annunci ha segnato la fine di otto mesi di confronto durissimo fra le Big Three dell’auto Usa (Gm, Ford e Stellantis) e la Union of Auto Workers. Tre accordi di principio andranno a riconoscere sostanziosi miglioramenti salariali (a partire del 25% medio per tre anni) e impegni d’investimento negli impianti americani a tutela di migliaia di posti di lavoro a rischio. I dettagli tecnici non sono certo marginali (gli addetti Ford al più basso livello salariale potrebbero compiere nei prossimi quattro anni e mezzo un passo avanti fino al 150% nel pacchetto-compenso complessivo). Ma è indubbio che la notizia del giorno sia essenzialmente politica: il grande ritorno – vincente e per nulla scontato – del sindacato sulla scena socioeconomica statunitense.

Non erano certo in maggioranza gli osservatori che all’inizio dell’anno scommettevano su Shawn Fein, il leader dell’Uaw, e sui suoi 146mila iscritti attorno allo storico epicentro di Detroit. Erano invece in molti a guardare con scetticismo alla strategia radicale degli auto-worker sindacalizzati (in molti casi re-iscritti dopo anni di abbandono)  in stile “classe metalmeccanica nel ventesimo secolo”: con scioperi massicci e prolungati e un visibile sforzo di mobilitazione sociale (peraltro non sempre in favore di vento mediatico, neppure da parte delle testate liberal). Forse anche per questo Wall Street ha inizialmente snobbato gli strike e la tenacia di Uaw nel reggere fino in fondo – nel 2023 – nel ruolo ritrovato di social broker, di “corpo intermedio” sul mercato del lavoro, centrale nell’economia reale. Oggi gli analisti finanziari sono invece fra i primi a riconoscere che le major dell’auto avrebbero fatto meglio a raggiungere prima gli accordi appena siglati, con minori perdite sul versante dei ricavi e margini per la mancata produzione.

L’esito della “battaglia dell’auto” potrebbe quindi valere più di un crash di Borsa nell’infrangere l’onda lunga della finanza liberista e globalizzata. E un sindacato che torna con successo alla sua core mission rivendicativa sul piano economico e perequativa su quello sociale, può avere più peso di ogni tentativo di ri-regulation dei mercati dopo ogni “incidente di percorso”.

Sarebbe d’altronde ingiusto negare che la Uaw abbia avuto fin dal primo giorno dalla sua parte la Casa Bianca di Joe Biden. Ma sarebbe riduttivo anche vedervi solo un classico appoggio elettoralistico di un’Amministrazione “dem” a una sua storica costituency quando sta partendo la campagna per le presidenziali 2024. L’affermazione Uaw nasce da dinamiche socio-economiche più profonde. Da un lato, i salari delle fasce di reddito più basse sono stagnanti da decenni. Neppure Donald Trump – che aveva vinto le elezioni 2016 appellandosi populisticamente agli “americani dimenticati” – era riuscito a movimentare le retribuzioni dei lavoratori, cui pure aveva dato piena occupazione e Pil in crescita. Ma nemmeno Biden, in tre anni di presidenza, è riuscito a incrementare per legge il “salario minimo”, come aveva promesso prima del voto 2020. Logico che abbia guardato con grande interesse a una svolta “di mercato” sui salari, promossa da un sindacato chiaramente connotato in termini politico-sociali.

Di più: dal febbraio 2022 l’inflazione ha preso a falcidiare i redditi fissi, soprattutto quelli più bassi. Ed è stato l’effetto di una scelta geo-politica della Casa Bianca “dem”, che ha sostenuto la resistenza ucraina all’aggressione russa via sanzioni internazionali, soprattutto sul commercio di risorse energetiche. Il brusco rialzo dei prezzi, dal canto suo, ha spinto ricavi e profitti in numerosi settori, soprattutto nei grandi gruppi. Ancora una volta i benefici immediati sono andati agli investitori di Borsa e ai top manager: con un impatto di ulteriore allargamento della forbice delle diseguaglianze. Il pressing di Biden a favore dei lavoratori dell’auto ha avuto quindi anche una finalità esemplare più ampia. Il costo della politica estera Usa (in difesa della democrazia occidentale) non può essere sostenuto principalmente dai lavoratori americani, già caricati di numerosi svantaggi. L’inflazione da guerra non può essere carburante per la speculazione.

Non certo da ultimo: lo sconvolgimento degli scenari geopolitici sta rapidamente riorientando strategie aziendali e politiche pubbliche di supporto alle imprese. La ricerca dell’indipendenza energetica e la ricomposizione “occidentale” delle catene di rifornimento globale  – ad esempio nella produzione di microchip – hanno spinto Biden a varare piani straordinari di aiuto pubblico all’economia, che hanno fatto parlare di “nuovo New Deal” dopo quello rooseveltiano di ormai quasi un secolo fa. Ed è evidente che un Presidente “dem” in cerca di riconferma non potrà mai consentire che i miliardi di dollari federali stanziati (a indebitamento crescente) per la transizione verde e l’innovazione tecnologica finiscano nelle tasche di Wall Street. Il “Pnrr americano” deve produrre anche (anzitutto…) nuova occupazione – possibilmente di qualità – e salari più alti.

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