La notizia più preziosa è il Battesimo che Dean Gregory e Claire Staniforth hanno voluto per la figlia Indi, pur essendosi sempre dichiarati lontani dalla fede. Notizia dunque e, forse, miracolo. Una luce nel buio, l’ha definita Marina Casini, presidente del Movimento per la vita. Il Battesimo è l’affermazione senza riserve della inviolabile dignità di ogni essere umano, perché è diretto rapporto con l’Infinito, dal quale ultimamente è voluto e al quale è destinato. La dignità non è adattabile ad altri parametri, che si dimostrerebbero, alla prova dei fatti, una misura riduttiva e violenta.
È in nome della dignità umana che il potere medico-giudiziario britannico ha stabilito di far morire Indi Gregory prima del termine naturale (ignoto) con una pervicacia tale da negare addirittura la categoria della possibilità: questo, infatti, significa il no reiterato dei clinici e dei magistrati londinesi al desiderio dei genitori e alla offerta di presa in carico della piccola malata da parte del Policlinico Gemelli di Roma, senza che il Queen’s Medical Center di Nottingham dovesse spendere un penny. Si sa: le decisioni prese per principio sono irrevocabili, se no tocca riconsiderare il principio, o la sua interpretazione. Così a Indi Gregory è stata decretata la stessa sorte che fu inflitta a Charlie Gard (2017), Alfie Evans (cui il governo Gentiloni aveva concesso la cittadinanza italiana, come il governo Meloni ha fatto con Indi) fino ad Archie Bettersbee (2022). Un piccolo cimitero che potrebbero intitolare al best interest. Unica eccezione, Tafida Raqeeb, curata al Gaslini di Genova e avviata a un percorso di riabilitazione.
Per quei bambini (e per tutti gli altri per cui non c’è stato contenzioso) il miglior interesse (o interesse prevalente, o superiore: ci sono diverse scuole di pensiero su come tradurre) è stato deciso che fosse finire di vivere. Best interest è un criterio originariamente adottato a livello internazionale per affermare il diritto alla salute. Qui viene utilizzato in fin dei conti per misurare la dignità o l’indegnità della vita, cioè se vale o no la pena che un altro stia al mondo, almeno ancora per un po’. Andando oltre il confine – sacrosanto, e pure a volte sottile e difficilissimo – tra eutanasia e accanimento terapeutico. L’apparato medico-giudiziario, poi, ritiene di poter utilizzare quel parametro in maniera oggettiva, cioè di conoscere la realtà clinica del soggetto senza interferenza alcuna di fattori emotivi (cioè, umani, ndr) da cui i genitori sarebbero tratti in inganno.
In verità, non esiste utilizzo di criteri che non sia poco o tanto influenzato, se non determinato, dalla posizione culturale di fondo di chi lo utilizza. La cultura prevalente con cui si intende il best interest è quella individualistica e utilitaristica ora immanente al post-moderno nichilista. Secondo il principio utilitarista (messo a punto dal – combinazione – londinese Jeremy Bentham nel Settecento) il bene coincide con l’utile, e un’azione è buona se produce felicità, intesa come presenza di piacere e assenza di dolore. Se c’è dolore, non ha senso vivere.
Questa postura culturale genera alcune conseguenze cruciali. 1) Un’indebita identificazione di inguaribile con incurabile. Perché in fondo la persona è ridotta a una sua parte. Una malattia può essere inguaribile, ma la persona essere curabile, cioè il più possibile adeguatamente accompagnata e sostenuta. I mezzi di sostentamento – aria, acqua, nutrimento – non sono una terapia. 2) Un’indebita separazione tra bimbo e genitori. Un paziente neonato o comunque piccolo non può essere considerato un’entità a sé stante, ma fa organicamente parte della sua famiglia. La cura allora accompagna il bambino e i suoi familiari a quello che sarà il suo destino inevitabile nel modo più umanamente dignitoso e risparmiano il più possibile la sofferenza.
L’idea della cura e l’unità bambino-famiglia suppongono non un approccio individualistico, ma solidale. Da questo punto di vista la tradizione italiana, e anche il sistema sanitario italiano, ha una sua positiva e preziosa peculiarità da custodire e implementare. L’aveva ben colto papa Giovanni Paolo II, quando nel discorso al Parlamento italiano, nel 2002, espresse questo giudizio: “Potremmo dire che l’identità sociale e culturale dell’Italia e la missione di civiltà che essa ha adempiuto e adempie in Europa e nel mondo ben difficilmente si potrebbero comprendere al di fuori di quella linfa vitale che è costituita dal cristianesimo”. Queste parole non ci tranquillizzano. Semmai rendono più acuta la domanda: davvero, per me, la vita è riempita di senso anche nel dolore, nel limite, nella mancanza? Se qualcuno risponde di sì, e non bara, e lo testimonia nei fatti, conviene seguirlo. Nel Battesimo di Indi c’è tutta questa domanda, questo struggente desiderio, la necessità, e l’attestazione, della Risposta. La luce nel buio.
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