È verosimile che Giorgia Meloni – con la promozione di Moody’s al rating italiano – abbia riscosso 12 anni dopo una cambiale politico-finanziaria che certamente Silvio Berlusconi, da poco scomparso, considerava parte del suo patrimonio. Ma non ha fatto a tempo, il Cavaliere, nemmeno a essere spettatore d’eccezione di un “quasi-trattato” fra Italia e Germania – siglato a Berlino da una Premier italiana di centrodestra – quasi agli antipodi dei sorrisi di compatimento che la Cancelliera tedesca Angela Merkel riservò al Cavaliere sotto attacco nell’estate 2011.
Non era vero, allora che l’Italia fosse sull’orlo della bancarotta come decretarono le grandi agenzie di rating: con giudizi-bombardamento che riecheggiavano l’iniziativa Nato contro la Libia e l’eliminazione politica del Premier italiano in via collaterale a quella fisica del rais di Tripoli. Non è vero nemmeno – purtroppo – che l’Italia di oggi sia più stabile e solida di allora sul piano economico-finanziario. La situazione debitoria è anzi peggiorata, in termini assoluti e in rapporto al Pil. i Né il Governo Monti, né quelli che sono seguiti (a guida Pd e M5S) hanno migliorato i fondamentali dell’Azienda-Italia: che l’effetto-pandemia ha anzi aggravato, nonostante l’efficacia delle successive azioni di contenimento varate dall’Esecutivo Draghi.
In Europa, tuttavia, c’è chi sta peggio, anche se in termini relativi o magari psicologici. Il budget 2024 della Germania non è stato giudicato meglio di quello italiano dalla Commissione di Bruxelles. E quello francese è stato bocciato. La recessione che preoccupa la Bce non meno dell’indebitamento crescente di numerosi Paesi-membri ha già colpito la locomotiva tedesca. Potrebbe invece solo sfiorare l’Azienda-Italia, seconda “macchina industriale” dell’Unione.
Nell’autunno 2023 la valutazione di Moody’s giunge intanto a raffreddare addirittura lo spread italiano: ben sotto i 200 punti base toccati nei giorni della presentazione della manovra 2024; comunque sideralmente al di sotto dei 600 punti dell’autunno 2011. Vi sono pochi dubbi che all’occhio di riguardo dei mercati – a smentita di molte congetture – abbia contribuito il netto posizionamento geopolitico dell’attuale maggioranza di centrodestra a supporto della Nato in Ucraina contro l’aggressione russa. Ma è probabile abbia avuto peso anche un’altra traiettoria, meno attesa da Roma: la predisposizione di un budget sostanzialmente restrittivo da parte del Governo, alla sua prima vera manovra finanziaria.
Assumendosi un serio rischio politico interno (non è mancato chi ha parlato di ritorno del sistema previdenziale alla “riforma Fornero”), il Governo ha tagliato in modo determinante il rischio-rating. L’investimento – però – è tutt’altro che chiuso. Il suo vero “ritorno” dev’essere ancora conseguito ed è un riassestamento del Patto di stabilità Ue non punitivo nei confronti dell’Italia. Il tavolo è ancora aperto: ma la Premier Meloni e il Cancelliere Olaf Scholz – al termine della lunga giornata italo-tedesca comprensiva di un G20 virtuale – sono parsi guardare in avanti. Verso “parametri 2.0” sganciati dal puro e semplice ripristino di quelli decisi a Maastricht ormai più di trent’anni fa.
È – forse – una coincidenza fortunata per l’Italia non meno che per la Germania (e per la Ue) che i negoziati europei diventino febbrili quando la crisi geopolitica sembra a un punto di svolta. Quando cioè il 2024 si annuncia come il primo di una vera exit da quattro anni di “guerra” (dal Covid all’Ucraina fino a Gaza). La parola-chiave è già “ricostruzione”. L’Italia sarà quasi sicuramente chiamata a testimoniare concretamente il suo rinnovato impegno europeo con l’adesione al Mes. Ma questa volta a decidere sul futuro dell’Azienda-Italia (a cominciare da nuovi sacrifici) non ci sono solo i leader di Germania e Francia e la tecnocrazia di Bruxelles.
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