I piccoli borghi, profezia di futuro

Nella rete dei comuni del welcome esistono comunità vive e vitali che non vogliono escludere nessuno e generano lavoro, accoglienza, solidarietà, cura della natura e del territorio

Chi ritiene che le metropoli siano il centro e le aree interne marginale periferia o luogo di buen retiro dei ricchi ha una visione vecchia e parziale della realtà. Nella rete dei comuni del welcome esistono comunità vive e vitali che non vogliono escludere nessuno e generano lavoro, accoglienza, solidarietà, cura della natura e del territorio.

La Rete dei Comuni del Welcome nasce a fine 2016, racconta Angelo Moretti, coordinatore nazionale della rete: «Abbiamo ragionato su alcuni dati ufficiali che parlavano di almeno 1.940 Comuni in Italia con meno di 1.000 abitanti, distribuiti tra Nord, Sud e Centro. In moltissimi casi i residenti reali sono ancora meno di quelli dichiarati all’anagrafe. Scrivevamo allora che quattro milioni e mezzo di persone vivono in Italia nelle cosiddette Aree Interne, quelle che distano almeno 40 km da servizi pubblici essenziali come stazioni e ospedali, quelle che presentano un digital divide ancora elevatissimo, offrendo ai propri abitanti servizi di connessione internet più scadenti rispetto ai grandi centri abitati. In questa fetta di Italia, che rappresenta in chilometri quadrati e in spazio simbolico e culturale molto di più di ciò che si possa immaginare, c’è un problema principale, da cui discendono tutti gli altri e che costituisce il vero grande spettro da cui difendersi per il futuro: lo spopolamento progressivo, l’invecchiamento progressivo, l’abbandono ambientale progressivo».

Nell’Italia che ha un saldo emigratorio imponente, in cui negli ultimi dieci anni gli emigrati e i morti superano dieci/cento volte gli immigrati e i nuovi nati. Anche se nessuna forza politica sembra volerne parlare nei talk show e nei social, l’Italia ha un enorme problema di svuotamento progressivo di se stessa. Quei piccoli comuni e borghi non possono restare scenario per alberghi diffusi e dei buen retiro dei ricchi, lì si gioca una partita importante per tutti. Il dibattito nazionale si ferma sui dati e le notizie di poche decine di città italiane, delle sue periferie scoppiate o facilmente “scoppiabili”, dello  sciopero dei trasporti pubblici locali che isolano quelle stesse periferie dal centro di città, di quelle poche decine di migliaia di nuovi immigrati che si trasferiscono nelle nostre periferie, e non vede, non sente, non avverte lo svuotamento progressivo che siamo vivendo.

In questa Italia incredibilmente vecchia, con un indice di natalità tra i più bassi d’Europa i promotori della Rete dei Comuni Welcome scrissero il Manifesto del Welcome convinti che proprio questa l’Italia dei piccoli comuni e borghi poteva innovare il rapporto ecologico tra donne, uomini e creato e i rapporti tra economia reale e finanza virtuale. Può essere questa l’Italia che riesce a trovare una nuova chiave di volta per il suo Welfare sempre più stretto tra politiche di Maastricht e cultura della solidarietà in discesa? Si chiesero.

In un’antropologia postmoderna che orienta le comunità degli uomini a organizzarsi attorno alle esigenze di una vita liquida, fatta di relazioni umane fragili e frequentemente scomponibili, di rapporti virtuali più significativi e costanti di quelli reali e di prossimità, le piccole comunità possono essere ancora la pietra di scandalo del sistema globale. Ma stanno per morire nell’incuria generale e in assenza totale di strategie forti.

Un Manifesto per questi piccoli comuni è proprio ciò che si intende etimologicamente nella parola stessa: è una mano che fende, che squarcia, che prova a rigenerare scuotendo, mescolando e  progettando, proprio come si fa con le terre incolte quando un gruppo di sognatori immaginano la loro nuova e prossima rifioritura.

Un Manifesto che ha segnato l’inizio di una piccola storia italiana ancora in corso e ben viva. 58 comuni di diverse Regioni, prevalentemente al Sud, uniti dall’idea di trasformare il welfare in Welcome, dove nessuno sia escluso, sia qui che nel mondo, dalla persona disabile alla famiglia povera a quella migrante, una trasformazione del tessuto relazionale locale, spiega Moretti nel suo recentissimo libro “Welfare Meridiano” (Rubettino editore) «che non richiedeva nuove leggi, ma di usare in modo nuovo quelle esistenti: il Sistema di Accoglienza e Integrazione (Sai), il Budget di Salute, le misure alternative alla Pena, le politiche di invecchiamento attivo, quelle contro la dispersione scolastica, il fondo per il Dopo di Noi delle persone con disabilità, la presa in carico della prima infanzia, la legge contro il caporalato e la buona agricoltura, i regolamenti comunali contro l’azzardo, la Snai, la Strategia delle Aree Interne, Sibater, il Servizio della Banca delle Terre, le leggi regionali sull’Agricoltura Sociale, la legge sui Piccoli Comuni, cosiddetta “Realacci”, n.158/2017, la legge “Gadda” n.166/2016 sulla donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi, i tanti Piani di Sviluppo Rurale, con le misure di inclusione e di infrastrutturazione locale e sociale delle zone agricole». Ecco, tutti questi dispositivi normativi consentono, dentro una narrazione nuova del welfare locale connesso ai fenomeni globali, di poter ambire alla promozione di comunità con zero esclusione perché capace di coinvolgere tutti sono nel welfare. Tutti possono essere raggiunti dal welfare quando si è nel bisogno. Si passa così dalla welfare community, immaginata come forma evoluta di welfare in cui entrano in gioco più attori della comunità e non solo il pubblico in collaborazione con il privato, a una community welfare, in cui è la stessa comunità che “si fa welfare” perché si riscopre una comunità “welcome”, una comunità in cui le relazioni reciproche tra gli abitanti, a qualsiasi titolo, del territorio condiviso mettono in pratica la massima di Martin Buber: «Si ha vera Solidarietà quando l’uno fa sentire all’altro che approva la sua esistenza».

Dall’accoglienza così intesa sono discese come “naturali” le cooperative di comunità integrate, tra autoctoni e migranti, per la gestione di servizi sociali, artigianali, agricoli, ecologici, ecosistemici, turistici, delle comunità abitate. Grazie a un progetto di Fondazione con il Sud, ci sono oggi dodici cooperative di comunità funzionanti in dodici piccoli comuni italiani, in cui gli “stranieri” siedono nel CdA. Si occupano di rigenerare beni comuni, come l’eco parco “A Revota”, a Pietrelcina, di riaprire bar del paese che erano chiusi, come il Bar Centrale di Sassinoro, di rialzare le saracinesche del piccolo market di paese, come per “Alimentiamo Chianche”, di avviare il welfare per l’infanzia, con “Pietra Angolare” a Petruro Irpino, di risistemare antichi sentieri dimenticati, come “FuEco” a Santa Paolina, e tanto altro.

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