Devo vedermi con un amico, quasi cinquantenne, per varie questioni. Fissiamo come luogo un bar vicino al centro riabilitativo dove è ricoverato suo padre per rimettersi in forma prima di tornare a casa. Dopo il nostro incontro, infatti, sarebbe andato a trovarlo. Qualche giorno prima, però, mi chiede se posso andare anch’io con lui per portare la Comunione al papà.
Ci vediamo, parliamo, poi ci incamminiamo da suo padre. Ci aspetta sulla carrozzina con uno sguardo vispo. Arriva il momento della Comunione. Impressiona sempre come il rito, pur semplice, contenga tutto. A gente che non si è mai vista prima, come me e il papà del mio amico, fa chiedere perdono insieme. E poi recitare il Padre nostro. E poi rimanere in silenzio mentre si riceve l’Eucaristia.
La forza della liturgia è anche questa: dialoga con l’origine che c’è già tra le persone. Non perde tempo, non prevede periodi di conoscenza previa, precauzioni di sorta… taglia corto partendo da un Altro. Solo così, del resto, si può tagliar corto. L’alternativa, lo sappiamo molto bene, è un logorio di parole e preamboli che non fanno incontrare nessuno.
Mentre salgo in macchina, per tornare a casa, ripensando alla scena mi vengono in mente alcune parole di don Giussani: “Quale intensità è promessa alla vita di chi coglie, istante per istante, il rapporto di tutto con l’origine” (L. Giussani, S. Alberto, J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Bur, Milano 2019, p. 31). Che un figlio si preoccupi che il papà possa ricevere la Comunione, e non solo la sua visita, non può che nascere da questa coscienza della decisività del rapporto di tutto con l’origine. C’è stato un tempo in cui questa preoccupazione passava da padre a figlio. Adesso le circostanze hanno invertito i ruoli, ma la sfida è sempre la stessa, e domanda il medesimo coinvolgimento di sé.
Nel 2017 padre Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’ordine cistercense, in un incontro con il monaco buddista Shodo Habukawa, riconobbe che “Spesso, se l’uomo contemporaneo dilapida l’eredità paterna, non lo fa soltanto per sete di libertà, di indipendenza e di piacere, ma perché l’eredità che si è preteso di trasmettere, anche culturale, anche religiosa, era un’eredità senza paternità, che ha preteso di trasmettersi senza il padre che la dona. Nessuna eredità è interessante se non trasmette, con essa e per suo tramite, un amore alla vita che si comunica solo da cuore a cuore, dal cuore del padre al cuore del figlio, dal cuore del maestro al cuore del discepolo. Un’eredità che non trasmette il cuore di chi ci genera, non è interessante, e merita solo di essere dilapidata”.
A volte ci domandiamo, guardando stupiti i nostri figli, come mai reagiscano in un certo modo, come mai cerchino in continuazione fughe dal reale, come mai arrivino a quei gesti estremi di cui pochissimi parlano, come mai abbiano paura di riconoscere la presenza dell’altro come un bene per sé, come mai talvolta vadano in tilt… e subito cerchiamo di “farli sistemare” da qualche esperto. Ma se la vera questione fosse proprio il fatto che abbiamo taciuto l’origine?
Non dico persa, perché lei non perde mai noi, ma taciuta. Abbiamo detto tutto il resto, spiegato per filo e per segno tutto il resto, ma taciuto lei, la vera protagonista di ogni avventura umana. A volte, addirittura, cerchiamo di tagliarla, facendo il tifo per dei “volta pagina” che ci trasformano solo in volta gabbana. Siamo persino capaci di voltare le spalle a ciò che ci ha generato.
Qui entra in gioco il nostro cuore. Colui che ci ha pensati ha messo in noi una tale nostalgia di Lui che nulla potrà ridimensionarla. Questo è il vero amico, questo è il vero alleato che, senza darci tregua, coglie ogni occasione per riaccendere quella mancanza che ci salva dall’abitudine del quotidiano e dalla tentazione di pensare che tutto inizi con noi.
Altro che retoriche su patriarcato o matriarcato, qui in gioco c’è ciò da cui siamo generati. Domandiamo di non tacerlo, se l’abbiamo scoperto.
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