Che dopo l’efferata uccisione di Giulia Cecchettin ad opera del suo ex fidanzato si parli di educazione non è male. Potrebbe essere occasione di riflessione, confronto, valorizzazione di buone esperienze, accorta rivisitazione di metodi e contenuti. Potrebbe.
Non è male, ma sì, che una marea di ragazze e ragazzi manifestino pubblicamente il loro no alla violenza sulle donne. Non è male il desiderio di darsi a una causa. Potrebbe essere il seme di una assunzione di responsabilità oltre la coltivazione del proprio buco più o meno social e digitale. Potrebbe.
Potrebbe ma, ahimè, è assai improbabile. Nell’esperienza dei cortei è forte la carica emotiva, ma debolissimo o assente un giudizio adeguato. “Le streghe son tornate”: per esprimersi, si è andati a rovistare nell’ormai desueto e superato armamentario del femminismo sessantottino (sono passati 55 anni) per raccattare slogan, movenze e individuazione del nemico.
Perché un nemico ci vuole sempre, e che sia esterno, assolutamente fuori di noi, così che noi ci si possa sentire dalla parte dei giusti e non bisognosi di correzione, orgogliosi di battere il pugno sul petto di qualcuno altro. Qualcuno chi, poi? Questo nemico sarebbe il patriarcato, che proprio il Sessantotto e la libertà sessuale hanno cancellato nelle società occidentali.
Non hanno però cancellato la violenza. Essa ha a che fare piuttosto, è più in radice, con la dimensione del potere che incombe e si introduce nelle relazioni umane, comprese le relazioni sentimentali e affettive, anzi sono forse queste le più esposte al pericolo perché le più intense e coinvolgenti. Il potere in un legame affettivo si attua come volontà di possesso. Il possesso porta a limitare la libertà dell’altro fino a negarla, e perciò a ridurre la persona ad oggetto disponibile, e a non accettare di soffrire per un no o un abbandono. Nelle forme estreme, esasperate e probabilmente aggravate da patologie a livello psichico, si arriva a uccidere.
Ma questo è un campo dove solo gli studiosi possono dire. Piuttosto, quello che è opportuno considerare è che il rischio di rapporti inquinati dalla volontà di potere ci riguarda tutti. Del resto, forse che il modello sociale e l’orizzonte personale non sono proiettati al possesso e al dominio come prova del proprio valore? Riguarda i don Gesualdo di verghiana memoria, per i quali tutto è roba da possedere, in un mondo arretrato e patriarcale. Ma riguarda anche i moderni Giulio Basletti alias Ugo Tognazzi nel film Romanzo Popolare, uomo si sinistra, sindacalista e dalle idee sessantottine e “aperte” anche in materia di coppia e sessualità, che quando si scopre tradito ha un accesissimo alterco con il rivale, a colpi di “Vincenzina è roba miaaaaaa”, “No Vincenzina è mmmiaaaa”. Perché non bastano le idee, le idee “che si hanno nella testa e non ancora nella pelle”, per dirla con una canzone di Giorgio Gaber, a cambiare le cose, men che meno a cambiare una persona. Occorre un’esperienza.
Si colloca a questo livello la necessità dell’educazione. L’educazione riguarda la posizione umana della persona nella sua unità ed interezza rispetto alla realtà, a se stessi e agli altri. Discutiamo pure se è utile o meno introdurre nella scuola elementi specifici di educazione all’affettività, si può su questo avere opinioni non drastiche e appunto discutibili. Indiscutibile è però il fatto che l’affettività è, con la ragione, fattore proprio e costitutivo della persona nella sua unità e interezza. In questo senso ci sono errori in cui moltissimi cadono e che invece sarebbero da evitare:
1) Ridurre l’educazione all’affettività a una “materia” separata, o a una branca di una disciplina. Per insegnare che cosa precisamente?
2) Scambiare l’educazione con l’addestramento: ad ogni bisogno educativo, le sue istruzioni per l’uso, come per ogni scaffale dell’Ikea le sue istruzioni per il montaggio, con chiavetta a brugola compresa nel kit.
3) Sezionare la persona in un patchwork di bisogni educativi ed assegnare alla scuola il compito di farsi carico di tutto e il contrario di tutto: educazione affettiva, sessuale, stradale, ecologica, energetica, etica, civica, alimentare… e chi più ne ha più ne metta.
4) Pensare che l’educazione, nel mondo di oggi così complesso e contraddittorio, possa essere scaricata a una sola “agenzia”, di solito appunto la scuola. È invece un compito che richiede un’alleanza tra scuola e famiglia sicuramente, e un cambiamento del paradigma culturale dominante.
Due grandi parole possono indicare le leve per un’educazione anche affettiva, oltre che conoscitiva: bellezza e gratuità, entrambe opposte a possesso. Nella scuola come in famiglia (e possibilmente nel più vasto spazio dell’abitare e del vivere sociale) è decisivo che queste dimensioni siano non solo insegnate ma testimoniate.
La gratuità si apprende nel sentirsi accolti e valorizzati perché si è, non perché si riesce a corrispondere alle aspettative o alle pretese di un genitore o un insegnante. La bellezza si impara imparando a guardare, a riconoscerla, a stupirsi, a capire che è per te non perché l’arraffi ma perché c’è. Gratuità e bellezza si comunicano attraverso la posizione personale e l’atteggiamento dell’adulto, ma anche dentro le materie di insegnamento (certo l’arte, la musica, la poesia, ma anche la matematica, o la fisica), o le raccomandazioni dei genitori.
Gratuità e bellezza nella relazione affettiva ed amorosa sono le uniche forse che possono ridurre lo stabilirsi della volontà di potere come possesso; garantire il rispetto assoluto dell’altro nella sua libertà, cioè ultimamente nel suo nesso inscindibile con un mistero. Ecco perché anche un ateo, se vuole veramente combattere la violenza contro le donne, dovrebbe stimare e difendere il senso religioso, il grande argine al potere.
Cristianamente si può ricomprendere gratuità, bellezza, libertà nella parola verginità.
La vera educazione affettiva è educazione alla verginità. Qui non si può non citare il genio del servo di Dio don Luigi Giussani: verginità = possedere come se non si possedesse. Cosa che vale egualmente, in forme ovviamente diverse, per la suora trappista come per il padre di famiglia. E, Dio lo voglia, anche per l’uomo lasciato dalla compagna.
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