Questi giovani, i nostri giovani, così come sono proprio non ci vanno bene. Davanti a questa nuova, terribile e atroce guerra, in tanti sono scesi in piazza. Si sono schierati. Dalla parte sbagliata? Strumentalizzati? Talora forse sì, ma ciò che colpisce è che si tratta di quegli stessi giovani che abbiamo sempre ritenuto indifferenti a problematiche politiche o sociali, individualisti, ripiegati su sé stessi, fragili e smarriti tanto quanto spesso trasgressivi e violenti. Eppure oggi si schierano, manifestano, così come hanno fatto con i Fridays for future a fianco dei movimenti ambientalisti o come faranno la prossima settimana per il diritto allo studio.
Questi giovani ci mettono a disagio, non sono come li vorremmo, ma, anche se spesso preferiamo non ammetterlo, gridano in fondo una nostra incapacità di essere per loro riferimenti reali cui guardare. Aveva scritto qualche mese fa Alessandro Rosina nella rivista Nuova Atlantide: “Quello che arriva alle nuove generazioni è soprattutto una richiesta a conformarsi a regole predefinite (di cui è sempre meno chiaro il senso) e a dare ciò che è chiesto (di cui è sempre meno chiaro il valore), in una realtà sempre più complessa, frammentata, in continua trasformazione”.
Non possiamo non riconoscere che i giovani sono delusi da un mondo adulto spesso incapace di proporre senso e valore e di testimoniare un gusto positivo del vivere. Un mondo ritenuto altrettanto inadeguato ad offrire sicurezze per un futuro lavorativo. Ed è proprio questa inadeguatezza del mondo adulto che li spinge a “prendere parte”, a desiderare di essere loro protagonisti. Aggiungeva infatti Rosina:“Vogliono esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la loro spinta per superare limiti e storture del sistema. Lo si è visto nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari”.
Questo bisogno di protagonismo oggi mostra anche tutta la sua pericolosità, perché, come diceva il cardinale Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, in un’intervista a La Stampa pochi giorni dopo l’inizio della guerra “dobbiamo ridare ai giovani delle prospettive di vita. Se di fronte a sé non hanno assolutamente nulla è chiaro che i fondamentalismi con le loro facili sirene attirano molto”. E i giovani cercano queste prospettive di vita.
Riccardo Zanotti, non un sociologo, non un educatore, ma un cantautore, il frontman dei Pinguini Tattici Nucleari, una delle band oggi di maggior successo, diceva in una recente intervista a proposito della Generazione Z: “è una generazione con tanta voglia di futuro e con la disillusione verso una politica lontana da temi impellenti come quelli ambientali”. E a proposito dello straripante successo della musica live aggiungeva “questo dimostra che la voglia di comunione e di condivisione tra i ragazzi c’è. Nelle grandi aggregazioni cercano qualcosa in cui credere. Qualcosa o qualcuno da seguire in cui riconoscersi moralmente. I ragazzi cercano speranza nei modelli che gli offri”.
Come facciamo a non aiutarli a trovare risposte a queste attese? Un compito impossibile se pensiamo di poter essere noi la risposta, noi così impauriti, così scettici, così preoccupati dalla vita. Ma c’è una cosa che possiamo fare. Aiutarli a guardare fino in fondo la grandezza che sono. Che scoprano ciò per cui sono fatti. Nel film Barbie, il grande successo estivo, la giovanissima cantante Billie Eilish, ci consegna in un suo brano la struggente documentazione di questo bisogno intenso e palpitante di conoscere sé e il proprio destino”. What Was I Made For? Per che cosa sono fatta? Quale è il mio destino? Credo di avere dimenticato come essere felice, non lo sono, ma lo posso essere. Lo sto aspettando. È il mio destino.”
Scoprire il proprio destino, la propria natura, addentrarsi nella totalità della propria struttura umana. Un compito che riguarda la propria vita, ma che forse è anche l’aiuto più grande che possiamo dare ai nostri giovani. Accompagnarli a conoscere sé e il mondo. Questo è l’educazione per don Giussani.
Nel suo testo Il rischio educativo infatti, riprendendo il filosofo J.A. Jungmann, Giussani definisce l’educazione “introduzione alla realtà totale”. E aggiunge “è interessante notare il duplice valore di quel ‘totale’: educazione significherà infatti lo sviluppo di tutte le strutture di un individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle strutture con tutta la realtà”. Nell’introduzione al testo Giussani aveva anticipato che “la prima preoccupazione di un’educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto”.
I nostri giovani non sono né contenitori da riempire, né fragili creature da proteggere, né tantomeno minacce da cui difendersi. Sono un dono che il Mistero ha fatto, che noi possiamo accompagnare alla sua “realizzazione integrale” perché possa entrare in rapporto con tutta la realtà. E se ci pensiamo bene è solo a questo rapporto che è affidato il futuro! A uomini desiderosi di non mollare nel paragone tra ciò che il proprio cuore desidera e l’impegno di costruzione che tutta la realtà domanda.
Allora possiamo solo augurarci che ci sia sempre qualche giovane Barbie che continui a cantare “What Was I Made for?” e che l’affanno della nostra vita e del suo funzionamento non copra la melodia struggente e irriducibile di quella domanda.
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