È già molto attesa l'”Agenda Draghi” sulla competitività dell’Ue. È il rapporto che all’ex Premier italiano è stato chiesto dalla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in scadenza con l’euro-voto del giugno prossimo.
Non è la prima volta che all’ex Presidente della Bce vien fatto carico di dettare grandi linee strategiche per l’Europa: al netto del memorabile whatever it takes con cui nell’estate 2012 fissò l’imperativo “non negoziabile” della banca centrale a difendere l’euro. È stato invece nel marzo 2020 – nella fase più critica della pandemia – che Draghi, appena lasciata Francoforte, scrisse per il Financial Times cinquemila battute argomentate e perentorie per raccomandare ai 27 capi di Stato e di governo dell’Ue di indebitare l’Unione e gli Stati membri, al fine di un letale avvitamento recessivo. L’Ue – in testa l’allora cancelliere tedesco Angela Merkel – gli diede ascolto e in poche settimane varò il Recovery Plan.
Al Meeting di Rimini 2020, peraltro, Draghi incalzò i leader europei con una distinzione subito diventata da manuale fra “debito buono e cattivo”. A essa lui stesso si attenne da Premier in fase di elaborazione del Pnrr italiano. Il “debito buono” – l’unico tale – è quello che non alimenta spese correnti ma investimenti sul futuro; processi di transizione innovativa, di “riforma” complessiva dei sistemi, nelle loro dimensioni economiche, istituzionali, sociali. È un concetto che Draghi, Premier uscente, ha ripreso al Meeting 2022, in quella che molti definirono un’Agenda per l’Italia che si apprestava al voto. L’interessato si schermì: presumibilmente perché il nocciolo di quel memorandum – il riformismo come leva per lo sviluppo, all’opposto di ogni rigido tecnocratismo – era già rivolto all’Europa. Era l’abbozzo della “Terza Agenda”, forse biglietto da visita per un incarico prestigioso nella prossima stanza dei bottoni dell’Unione (per Draghi si parla con più insistenza della futura Presidenza del Consiglio Ue).
Attorno al riserbo in cui l’ex Premier italiano sta predisponendo il suo rapporto, circolano già attese credibili. Si annuncia anzitutto un richiamo fortissimo al mercato unico: la matrice fondativa della prima Comunità europea, quella dei Trattati di Roma. Ma non come appello ideale, di prammatica. L’Ue, anche trent’anni dopo i Trattati di Maastricht, è tutt’altro che che uno spazio economico in cui persone, beni e servizi, capitali e saperi circolano liberamente, senza frontiere e senza ostacoli. Forse anzi – dopo gli choc del Covid e delle guerre – lo è meno di prima e sempre meno. Uno stesso prodotto (italiano o polacco, tedesco o portoghese) non è egualmente disponibile – e allo stesso prezzo – in tutti gli angoli dell’Unione. Né uno stesso posto di lavoro, né uno stesso accesso alle piattaforme digitali o a uno stesso fondo Ue. E questo – al netto della ricerca di una generale coesione di sistema – danneggia soprattutto l’infrastruttura delle piccole e medie imprese, portanti per il Pil e l’occupazione. C’è un problema di governance istituzionale (rapporti fra tecnocrazia di Bruxelles e governi nazionali) e una questione sostanziale politico-economica (funzionamento reale di una concorrenza virtuosa e integrata).
La brusca svolta geopolitica sta spingendo verso ri-occidentalizzazione, ri-nazionalizzazione, ri-statalizzazione. Sta rendendo drammatica l’assenza di grandi gruppi europei (possibilmente transnazionali) in settori come le tecnologie militari, i microprocessori, l’energia (per non parlare del digitale puro). Ma anche nel settore unificato quasi per antonomasia dall’euro (finanza, banche, Borse) è ancora lontana dall’essere “europea al servizio dell’Europa”. La spinta iniziale alle fusioni da parte del mercato è via via scemata (anche dopo la rottura di Brexit). Ora i Governi nazionali stanno mettendo in campo aiuti pubblici: un po’ alla rinfusa, sulla scia dei piani rapidamente sviluppati dagli Usa di Joe Biden. Da Draghi si attendono suggerimenti qualificati: si possono/si debbono costruire “campioni europei”? Con quali ricette “pubblico/privato”?
Non ultimo è difficile che Draghi tenga in secondo piano l’indispensabilità di una stagione di investimenti straordinari in education e ricerca: cioè, da ultimo, nelle giovani generazioni europee. Una nuova competitività Ue può nascere solo a scuola, nelle università, nei centri di ricerca e formazione di ogni livello a cavallo con le imprese. Che poi è la vera “Agenda Draghi”, da sempre: basta rileggere il suo primo intervento al Meeting di Rimini, nel 2009.
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