Mi è capitato di essere coinvolto nella tragedia della morte improvvisa di figli di miei carissimi amici. Saputa la notizia, ho cercato di raggiungerli il prima possibile. Il bisogno di abbracciarli era più forte di me. In quei momenti non c’era parola che sembrava avere senso. Mi sono sentito totalmente impotente e inadeguato, non solo nel dare conforto, ma anche nel far sentire meno soli i miei amici. Il dolore appare un pozzo senza fondo. Non c’è nemmeno una parola per definire questo stato, “orfano di figlio”, tanto è contro natura la sopravvivenza di un genitore al figlio.

Perché c’è il dolore? Penso alle guerre, alla povertà, alla violenza, alle catastrofi naturali. Per anni mi sono arrovellato nella disquisizione filosofica sulla sua origine e mi sono domandato come facesse Dio anche solo a permettere che l’uomo soffrisse così.

Poi mi è capitato di rileggere un dialogo di papa Francesco con uno dei ragazzi della comunità dei “Cavalieri”, avvenuto nel 2017. Nato in Bulgaria, Tanio era stato abbandonato dai genitori al primo mese di vita in un orfanotrofio per poi essere adottato quando aveva cinque anni da una famiglia italiana. Dopo un anno, però, la nuova mamma morì: “Ho vissuto fino ad ora con papà e i mei nonni. Quest’anno sono morti anche i miei nonni. I Cavalieri sono un dono, un grande dono, per me: perché mi stanno vicini e mi sostengono in ogni momento della mia vita. Però, mi sorge questa domanda: come si fa a credere che il Signore ti ama, quando ti fa mancare persone o accadere cose che tu non vorresti mai?”.

Papa Francesco rispose così: “Ci sono domande – come quella che tu hai fatto – alle quali non si può rispondere con le parole. Tanio, troverai qualche spiegazione – ma non del “perché”, ma del “para que” [“a che scopo”] – nell’amore di quelli che ti vogliono bene e ti sostengono. Non è una spiegazione del perché succedono queste cose […] Quando mi faccio io nella preghiera la domanda “perché soffrono i bambini?” il Signore non mi risponde. Soltanto guardo il Crocifisso. Se Dio ha permesso che suo Figlio soffrisse così per noi, qualche cosa deve esserci lì che abbia un senso. Ma, caro Tanio, io non posso spiegarti il senso. Lo troverai tu: più avanti nella vita o nell’altra vita. Ci sono, nella vita domande e situazioni che non si possono spiegare. Una di queste è quella che tu hai fatto, della tua sofferenza. Ma dietro a questo, sempre c’è l’amore di Dio… Ti faranno sentire l’amore di Dio solo quelli che ti sostengono, che ti accompagnano e ti aiutano a crescere”.

Questo dialogo mi ha fatto riflettere. Non è vero allora che di fronte a chi soffre in modo atroce si è inerti. Non solo per l’abbraccio, la condivisione, la preghiera e l’aiuto nei bisogni più concreti. Ma proprio perché l’impotenza ti fa riscoprire una radice di te stesso diversa, quella della carità, una natura aperta a una sorgente di bene che non siamo noi.

Ci sono persone che hanno una grande fede e che sanno ricordare con decisione e dolcezza che il dolore e la morte non sono l’ultimo destino.

Viene in mente uno dei capolavori più grandi dell’umanità che sintetizza più di ogni altra cosa tutto questo: la statua della Pietà di Michelangelo che sta all’ingresso della basilica di San Pietro.

La Madonna guarda Gesù morto, inerte, sorretto solo dalle sue braccia. È qualcosa di incomprensibilmente assurdo: Dio onnipotente è incosciente, abbandonato da ogni tipo di forza e dalla stessa vita, sorretto da una donna mortale. Ma quella Pietà non trasmette solo un’immensa tristezza, ma anche un’infinita speranza piena di dolcezza. Cristo è tra le braccia della Madre, nel percorso misterioso che lo conduce alla Resurrezione. Come se Dio ci volesse dire: non vi spiego il dolore, ma io, che ho provato tutto quello che voi provate, non vi lascio soli. Attraverso l’abbraccio degli amici, Io il risorto, sono con voi, soffro con voi, piango con voi, vi abbraccio.

Così, nella comunione dei santi, comincia un dialogo misterioso con chi non c’è più, mentre la pace si fa avanti anche nel dolore.

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