La faccia nascosta dell’emergenza educativa

Luca e Paola. Due storie, quelle di due errori: lasciare la scuola sul più bello e dire no, un no inspiegabile, a una bella opportunità. Perché?

Luca e Paola (mettiamo che si chiamino così) sono diciottenni che abitano nello stesso quartiere di periferia. Non si conoscono tra di loro. Ma combinazione io li conosco entrambi, come conosco i genitori dell’uno e la mamma dell’altra. Famiglie povere entrambe. Luca al penultimo anno di scuola professionale indirizzo carrozziere ha piantato lì e non si è iscritto all’ultimo anno. Ha detto che voleva andare a lavorare. Va a capire bene perché. Perché faceva fatica a studiare? Può essere, era riuscito a farsi bocciare al primo anno… Perché voleva aiutare economicamente la famiglia? Anche questo è possibile, dato che per avere un piatto di pastasciutta anche alla quarta settimana del mese toccava rinunciare a una ricarica da cinque euro del telefonino. Perché voleva anche lui avere qualche spicciolo in tasca per farsi una birretta ogni tanto con gli amici e non doversi vergognare per non poter cacciare il becco di un centesimo? Più che normale, immaginiamoci nei suoi panni.

Fatto sta che ha fatto una sciocchezza. Il lavoro l’ha trovato precarissimo, faticosissimo, senza prospettive e in nero, come magutt (garzone) di un muratore conoscente del babbo.

Paola la scuola scelta l’ha frequentata tutta, cinque anni di professionale “Produzioni industriali e artigianali, articolazione Industria, curvatura Chimico-biologica” (c’è scritto esattamente così sul sito web dell’Istituto in questione, ho solo fatto copia-incolla, giuro). Compiuti i diciotto anni, Paola ha anche preso la patente e comprato una macchinetta usatissima ma semovibile con cui può andare a lavorare presso un McDonald a qualche chilometro, orari variabili anche notturni, turni comunicati settimanalmente, contrattino a tempo determinato breve, e part time, stipendio di qualche centinaio di euro, non di più.

Tecnicamente si chiama Gig economy; in italiano: il grado infimo dei lavori. Che va anche bene provvisoriamente, per cominciare. Infatti la ragazza vorrebbe un impiego coerente con il suo diplomino bio-chimico. Lei e la mamma chiedono giustamente un aiuto a chi conoscono: “Se sai di una ditta in zona che cerca…”. In realtà per cercare lavoro bisogna sapere come fare e nessuno nasce imparato. Comunque col metodo bonus-domanda non si cava un ragno dal buco. E infatti, qui viene il sugo della storia, a Paola viene proposto dall’amico interpellato il colloquio con due suoi conoscenti, non due patacca qualsiasi, ma due pezzi da novanta nel campo delle risorse umane. E qui accade l’imprevisto: la ragazza ci pensa un po’ su e poi rifiuta. A domanda, risponde che la sua ex prof ha detto che il suo curriculum “europeo” va benissimo così com’è (e invece no) e ribadisce che tutto quello di cui ha bisogno è che le si faccia sapere se c’è un posto, eccetera eccetera. Non è difficile immaginare che, a meno di una botta di fortuna, Paola rischia di ingrossare le fila delle vittime di quello che tecnicamente si chiama mismatch (in italiano: il fenomeno per cui domanda e offerta di lavoro non si incontrano, come due rette sghembe).

Le vicende di Luca e Paola mostrano innanzitutto una cosa: che né scuola né famiglia sono state in grado di offrire ai ragazzi un indirizzo conveniente e adeguato al loro futuro e men che meno di accompagnarli in questo percorso. Una prima morale si può trarre. Non si combatte la povertà semplicemente con i pur necessari sostegni alla sopravvivenza del nucleo famigliare, ma progettando forme di sostegno consistente all’investimento sull’istruzione dei figli. Quanto alla scuola, questa scuola con questi prof, non è certo in grado di orientare al posto di lavoro.

L’amico pezzo da ottantanove di cui sopra afferma che cercare lavoro è un lavoro. E che bisogna imparare ed attrezzarsi. Imparare innanzitutto due cose che riguardano l’io: primo, conoscersi, pescando dalla propria esperienza ben giudicata, così da potersi presentare con le proprie qualità (soft skills) e con le proprie competenze (quel che si sa fare); secondo, mettersi in gioco, cioè impegnare sé nel rapporto con la realtà. Poi, certo, occorre imparare le tecnicalità riguardo a come fare il curriculum, come navigare in internet, come conoscere il mercato, come fare incontrare la propria domanda con l’offerta disponibile.  Tutto ciò lo sa accompagnare chi esperienza di lavoro e di mercato del lavoro ce l’ha. Non basta la scuola da sola, non bastano i centri per l’impiego da soli, non basta di solito la famiglia da sola. Occorre la convergenza di questi apporti e la capacità di intercettare e sintonizzarsi con l’io (di solito fragile) del ragazzo.

Rimane la cosa più difficile, la domanda per me al momento irrisolta: perché una ragazzo e una ragazza rifiuta l’offerta di un aiuto di qualità? Un aiuto che costerebbe un occhio della testa se fosse fornito a titolo professionale. Che un diciottenne voglia affermare la propria autonomia e il proprio protagonismo non è solo comprensibile ma auspicabile. Il punto critico è però che egli verosimilmente percepisce l’apporto di un’autorevolezza competente, amichevole e gratuita quasi come una “diminutio” del proprio io o una perdita di tempo inutile.

Forse questo livello mostra una faccia non secondaria dell’emergenza educativa cosiddetta. Percepire l’autorità come “ciò che fa crescere” è veramente difficile che accada in un contesto culturale che invece il concetto giusto di autorità, e l’esperienza di benefiche autorevolezze, ha screditato e pressoché cancellato (sostituendolo con il potere e la moda). Bisogna lavorarci e mettercela tutta, proponendo l’autorevolezza come esperienza che emana fascino e genera fiducia. Praticamente un abbraccio.

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