Fra le statistiche italiane di fine anno hanno trovato spazio mediatico quella riguardante la stabilità (rigidità) alta della pressione fiscale nel medio periodo e quella sul ristagno di lungo periodo delle retribuzioni.
Nel primo caso il 42,9% rilevato dall’Eurostat per il 2022 (in leggerissima salita rispetto al 2021) si è collocato sopra la media Ue (41,2%, in lieve calo), ma soltanto al sesto posto fra i 27: nettamente più un basso del 48% della Francia e poco sopra la Germania (42,1%). Ogni analisi articolata delle politiche fiscali comparate in Europa non può naturalmente prescindere da uno studio dell’efficienza/efficacia della Pubblica amministrazione, principalmente nell’erogare education, welfare alle famiglie e sostegni alle imprese: fronti su cui il sistema-Italia accusa gap che vanno di fatto ad aumentare il carico fiscale sui contribuenti.
Molto problematica si presenta d’altronde la situazione sul fronte di salari e stipendi. In uno studio appena presentato dall’Inapp, dal 1991 a oggi – cioè dalla nascita dell’Unione europea – le retribuzioni sono cresciute in Italia solo dell’1%, a fronte del 32,5% registrato in media nell’intera area Ocse. Il centro di ricerca – che opera nell’orbita del ministero del Lavoro – ha collegato la tendenza a tre fattori principali. Il primo è stato la finanziarizzazione dell’economia che anche in Italia – ma forse meno che altrove – ha portato i profitti sul capitale a conquistare la parte del leone (60%) del valore aggiunto, comprimendo il trend delle remunerazioni del fattore lavoro. Ciò che invece è stato segnalato come “virus” tutto italiano – e particolarmente grave – nel ristagno delle retribuzioni è la ben nota crisi della produttività del lavoro: cioè la molla del prodotto per addetto, cioè della piattaforma di lancio reale di salari e stipendi. Ed è su questo sfondo che è maturato anche – come terzo fenomeno rilevante – l’indebolimento della contrattazione collettiva come strumento di tutela attiva delle “ragioni di scambio” sul mercato del lavoro.
Una suggestione che qui viene necessariamente proposta in chiave giornalistica, cioè breve e qualitativa, è il collegamento fra le due tendenze: fra l’altro nei giorni in cui il Governo fatica a sbloccare una prima riforma tributaria, imperniata sulla riduzione delle aliquote. La pressione fiscale (anche quella “intangibile e impropria”” data dall’incertezza e della complessità normativa e amministrativa) continua a essere un forte disincentivo allo sviluppo dell’imprenditorialità: che è di per sé dinamica incrementativa della produttività. E anche nel momento in cui la politica finanziaria del lavoro sembra avviare la rimozione dei diversi “cunei” che condizionano la formazione dei salari effettivi, la spirale negativa che avvita tasse alte e stipendi bassi appare ancora lontana dall’essere sciolta.
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