Non accenna a placarsi il dibattito in merito a episodi di antisemitismo e manifestazioni avvenuti nelle principali università degli Stati Uniti a seguito del conflitto in Medio Oriente. Una tempesta che sta mettendo a dura prova soprattutto le cosiddette Ivies (un’etichetta che identifica alcune delle più prestigiose istituzioni americane), tra cui Harvard, University of Pennsylvania, Princeton e Columbia. Oltre a loro, diversi campus stanno subendo forti pressioni da parte di donatori, ex alunni e politici, per contenere proteste ed eventi, in particolare pro-Palestina.
Sebbene le Ivies accolgano appena 70.000 dei 20 milioni di studenti undergraduate in America, gli eventi che accadono al loro interno hanno un impatto e un’influenza considerevoli sia nel panorama nazionale che internazionale, spesso anticipando fenomeni destinati a diffondersi altrove. Questa vicenda ha riportato al centro dell’attenzione questioni quali l’academic Freedom e la freedom to speach, tematiche già sensibili negli Stati Uniti e che ora si affacciano anche in Europa. Molti analisti e opinionisti sostengono che tali valori siano seriamente minacciati dalle crescenti limitazioni imposte al fine di garantire equilibrio, che molto spesso si traduce in neutralità. Fa riflettere che il 66% dei rispondenti a un recente sondaggio dell’Università del Maryland e della George Washington University abbia dichiarato di auto-censurarsi sugli eventi in Medio Oriente. La paura di confrontarsi ed esprimere un giudizio è palpabile.
L’auto-censura e lo schieramento estremo sembrano essere le uniche posizioni possibili di fronte a fatti dirompenti come la guerra, mentre le istituzioni, universitarie e non, fanno di tutto per evitare scandali mettendo a tacere le opinioni divergenti. Mi interroga il fatto che questo avvenga proprio nell’Universitas che, come dice il nome, è un luogo che per natura dovrebbe educare il pensiero critico, universale appunto, e dunque il dialogo tra le discipline e le persone. Mi sorprende anche che in una situazione come questa, la preoccupazione dominante riguardi la libertà di espressione – senza dubbio importante – piuttosto che la pace. La pace non solo tra le popolazioni in guerra, ma anche tra i protagonisti di questa vicenda (studenti, professori, rettori, e politici), tra cui dominano astio e contrapposizione. Una pace che non nasce dalla salvaguardia di un equilibrio neutrale, ma piuttosto da un rispetto attivo della dignità della persona, qualunque pensiero e posizione abbia.
Cosa può favorire l’incontro e la pace tra persone che hanno posizioni apparentemente inconciliabili? È sufficiente garantire il rispetto della libertà di espressione ed evitare che opinioni contrastanti siano manifestate pubblicamente? Ho trovato un indizio di risposta in un racconto del libro Don Camillo e il suo gregge di Giovannino Guareschi. Il racconto inizia così: “Una mattina arrivò un giovanotto in bicicletta e, fermatosi sul sagrato, incominciò a guardarsi attorno come se cercasse qualcosa. Ad un tratto parve aver trovato ciò che gli interessava e, appoggiata la bicicletta al colonnotto, prese ad armeggiare attorno al fagotto che stava sul portapacchi. Ne cavò fuori un seggiolino pieghevole, un cavalletto, una cassetta di colori, una tavoletta e, pochi minuti dopo, era già al lavoro”. Gli abitanti del paese si avvicinano incuriositi e scettici: “Io non capisco cosa ci sia di bello in quel portico” – dice uno – “Ci sono dei soggetti mille volte più pittoreschi, lungo il fiume”. Dopo due ore, una grande folla ammirava sbalordita la meraviglia del pittore. “Sono quasi cinquant’anni che vedo tutti i santi giorni quel porticato, e soltanto adesso mi accorgo che è bello!”, esclama il sindaco comunista Peppone, che sotto il porticato andava solitamente per questionare con il rivale e amico don Camillo.
Il curato, viste le sue doti, commissiona al giovane pittore la ristrutturazione dell’affresco della Madonna del Fiume, all’interno della chiesa del piccolo paese. Allo svelamento dell’affresco, don Camillo rimane a bocca aperta di fronte a un tale capolavoro, ma a un tratto gli si crepa la faccia: il volto della Madonna era quello di una ragazza comunista che lavorava in una osteria del paese. Una cosa inaccettabile per il prete. Il giovane pittore, non conoscendo altro della ragazza se non la sua bellezza, ne aveva tratto ispirazione, ignaro di tutto. Alle invettive del curato risponde mortificato: “Reverendo, io mi sono ispirato al suo viso, ho cercato l’ispirazione nel viso più bello che ho trovato.” Ancor più infuriata era la ragazza cui il pittore si era ispirato, quando seppe che la sua immagine appariva in bella vista all’interno della chiesa, in cui lei, scomunicata, si guardava bene dal mettere piede. Andò a vedere l’affresco, inferocita e determinata a chiederne la rimozione. Arrivataci davanti, rimase qualche istante in silenzio, poi disse con voce sommessa: “Com’è bella, non cancellatela, per favore!”. Quindi si inginocchiò e si segnò.
La semplicità di questo racconto mi ha rimesso davanti all’evidenza che solo il fascino e l’attrazione di una bellezza fuori di noi può darci pace e farci incontrare, al di là di ogni schieramento. Possiamo convivere ed essere uniti, pur nella diversità, non per la nostra abilità a preservare un equilibrio, ma perché attratti dalla stessa cosa. Anche noi potremmo trovarci a dire come quel passante: “Io non capisco cosa ci sia di bello in quel portico” (sostituendo “portico” con qualsiasi altra parola), o a ridurre una persona alle sue opinioni. Per fortuna, non mancano persone semplici come il giovane pittore che ci aiutano a rispettare l’altro perché c’è, e non per le posizioni che ha; che vincono il nostro scetticismo e ci mostrano la bellezza anche dove non ci aspetteremmo: “Sono quasi cinquant’anni che vedo tutti i santi giorni quel porticato, e soltanto adesso mi accorgo che è bello!”.
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