Bassam e Rami, quando il desiderio di giustizia non si trasforma in vendetta

Bassam Aramin e Rami el Hanan sono due padri che hanno perso le loro figlie, ma non hanno trasformato il loro dolore in desiderio di vendetta

Bassam Aramin vive a Gerico, ma mi dice che sarà molto difficile per lui andare da Gerusalemme alla città di Zaccheo. Così ci diamo appuntamento al checkpoint di Beit Yala. Entro in Cisgiordania a piedi, il checkpoint è chiuso. Bassam viene a prendermi con la sua macchina.

Bassam è palestinese. In gioventù ha fatto ricorso alla violenza e ha trascorso diversi anni nelle carceri israeliane. Poi si è convinto che la lotta armata non poteva risolvere nulla. Ha incontrato Rami el Hanan, un israeliano che vive ad Haifa e che aveva perso la figlia in un attacco terroristico jihadista. Non avrebbe mai pensato che potesse succedergli una cosa simile, ma nel 2007, mentre sua figlia di 10 anni stava uscendo da scuola, un soldato israeliano le ha sparato alla testa. Bassam, come Rami, è rimasto senza una figlia.

Mi racconta che è stato un duro colpo, che era molto arrabbiato e che è ancora arrabbiato. Non riesce a scrollarsi di dosso quella rabbia. Tuttavia, il dolore non deve necessariamente trasformarsi in rabbia e vendetta. “Anche se uccidessi tutti gli ebrei o tutti i musulmani – dice Bassam – non riavrei indietro mia figlia. Ci sarebbero solo più vittime che cercherebbero vendetta”.

Le parole di questo palestinese hanno un valore speciale quando ci sono già 20.000 morti nella guerra di Gaza. Bassam, con Rami, che chiama fratello, porta avanti un’associazione chiamata The Parents Circle. Il loro obiettivo è liberarsi di un passato doloroso.

Finisco di parlare con Bassam, torno a Gerusalemme e mi rendo conto dell’eccezionale conversazione a cui ho partecipato. Gli attacchi del 7 ottobre e la reazione smisurata di Netanyahu non possono essere facilmente spiegati da uno schema ideologico. Il terrorismo non si spiega con il contesto in cui vivono i palestinesi, la risposta di Israele non si spiega con la sua storia o con il suo bisogno di sicurezza. Di fronte alla complessità, di fronte al mistero, cerchiamo sistemi sufficienti che neghino o giustifichino il male. Bassam e Rami, con le loro due storie particolari, rendono evidente che il mondo non è mosso da leggi necessarie.

Solitamente viviamo circondati da ciò che abbiamo prodotto. Concepiamo noi stessi in base a ciò che abbiamo fatto. Quando utilizziamo i mezzi adeguati raggiungiamo i fini desiderati. Se siamo belli è perché abbiamo passato molte ore in palestra, se siamo ricchi è perché abbiamo studiato sodo e scelto bene la nostra professione. Il rapporto tra Bassam e Rami, il fatto che il loro desiderio di giustizia non si sia trasformato in un desiderio di vendetta, non è qualcosa che hanno prodotto. I fattori antecedenti non spiegano ciò che è stato dato loro. Dopo aver perso le loro figlie, è nato un nuovo figlio. La nascita di un bambino è l’esempio più lampante della sproporzione tra i mezzi impiegati e il risultato ottenuto.

Questo, che si compie in ogni nascita, raggiunge il suo culmine quando un “Bambino ci è stato dato”. Un Bambino continua a esserci donato, la sfida è accettare la sorpresa che genera, rinunciare a interpretare quanto accaduto come l’espressione di una storia che si comporta secondo leggi inesorabili.

Bassam e Rami avrebbero potuto essere due padri che seguivano la legge della natura, la legge dell’azione e della reazione all’ingiustizia. Tuttavia, hanno accettato la loro reciproca relazione come qualcosa di imprevisto, che non era in alcun modo scritto.

Il Bambino continua a esserci donato, il problema è la nostra quasi irrimediabile inclinazione a trasformare la sorpresa in prodotto.

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