Non so se ci avete fatto caso: nei centri commerciali è diventata impresa ardua, se non impossibile, trovare le statuine del presepe. Il dubbio mi è balenato nei giorni di acquisti pre-natalizi. Non che ne cercassi: in casa abbiamo da sempre quanto occorre per allestire la scena della Nascita di Gesù in quel di Betlemme, duemilaventitrè anni fa. Ma spingendo il carrello verso l’uscita, mi è venuto, come in un flash, l’impressione di non aver visto capanne, pecore, pastori, re magi e stelle comete. Non fidandomi della prima impressione, ho fatto una verifica, cioè un giro d’ispezione in quattro siti che chiameremo Iperalfa, Superbeta, Maxigamma e Poordelta.
All’Iperalfa non si trovano statuine, né muschio, ne carta per le montagne o per il cielo stellato. Montagne di cioccolatini. Reparto libri per bambini: nessuna traccia anche vagamente natalizia. Girato l’angolo, finalmente, due alberi. Alti quasi due metri. Verdi. Di cartone: sono espositori di rotoli di scotch. Ci sono biglietti di auguri: uno ha il disegno di una palla (rossa) da albero, gli altri sono meno natalizi ancora.
Al Superbeta vedono palle per addobbare l’albero, corone e addobbi vari, in uno spazio piuttosto ridotto ma decentemente organizzato. No capanna, no statuine.
Il Maxigamma mi accoglie con una fila di alberi di cartone rossi appesi al plafone e sotto rose rosse di Natale vere o finte a scelta. Un pupazzo che sembra Babbo Natale con le gambette però di Scaramacai è solo uno dei tanti peluche, che non c’entrano. Cappellini a cono modello ricchi premi e cotillons. Nel reparto fai da te, fra i tappetini per l’auto e lo scaffale dei sottovasi, ecco due espositori con appesi piccoli sacchettini di cellophane con dentro, da una parte, singole statuine di plastica cm. 8, bruttarelle assai, euro 1,99 euro e, dall’altra, tris di statuine, cm. 3-4, bruttarelle assai, euro 3,65. Piccolissime, ci vuole la vista buona, ma vuoi mettere il risparmio?
Al Poverodelta, discount, ci sono amari da 4 euro, crocchette per il cane, lumini rossi da cimitero, per dire, ma di statuine e palle neanche l’ombra, nemmeno i cioccolatini luccicano.
In quei caravanserragli del consumo, i prodotti che tirano vengono mostrati in modo così vistoso che è impossibile non esserne più che colpiti, direi assaliti. Avete presente Halloween e il carnevale: un trionfo di zucche vuote e dolcetto-scherzetto che prima ancora della festa, gabbatu lu santu; un’invasione di maschere, costumi, coriandoli e manganelli di spugna che sempre allegri bisogna stare. A regolarsi con i messaggi che trasmettono i centri commerciali, l’anno liturgico passa direttamente da Halloween al carnevale; il Natale è depredato dei suoi segni peculiari e sottinteso dalle montagne di panettoni e di cioccolatini luccicanti nelle loro stagnole rosse e oro.
Come va il mondo là fuori, lo si vede nel suo aspetto più clamoroso e drammatico nelle guerre che divampano e massacrano. Va come ha detto il Papa: “ Il ruggire delle armi anche oggi impedisce a Gesù di trovare alloggio nel mondo”. Anche oggi, perché già duemila anni fa, come si attesta nel vangelo, “Venne tra i suoi ma i suoi non lo accolsero”.
Come va il mondo che è dentro di noi lo si vede nel suo aspetto più feriale e inconfutabile nei centri commerciali, villaggi artificiali e pervasivi dell’ uomo consumatore.
Mezzo secolo fa, precisamente in un articolo sul Corriere dell’ 1 febbraio 1975, Pierpaolo Pasolini parlava della “scomparsa delle lucciole” per indicare la repentina dissoluzione dei valori tradizionali nel vissuto della gente: “Ho visto dunque coi miei sensi il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione”. Le analisi di Pasolini, raccolte negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane sono straordinariamente acute e profetiche.
C’è però un “prima” che precede (e poi accompagna) questo fenomeno di “mutazione antropologica” e di “omologazione culturale” su cui fissare l’attenzione. Ed è la riduzione moralistica e devozionale di una fede cristiana data per scontata, sempre più degradata a forme inincidenti sulla vita. Questo processo era in atto già prima del boom economico. Primo ad accorgersene con chiarezza fu don Giussani, che rilanciò il cristianesimo come avvenimento sperimentabile. Giovanni Paolo II, quando c’era chi si compiaceva del supposto ritorno del sacro, ammoniva che “una fede che non diventa cultura è una fede morta”. Benedetto XVI mostrò infine che la pretesa illuministica di staccare i “valori” della tradizione europea dalla loro sorgente è fallimentare e sfocia nel nichilismo.
E così, alla fine, anche i segni, i piccoli grandi segni della tradizione e del sentimento popolare, svuotati del loro rimando al Fatto cristiano, vengono dismessi e rottamati. Il presepe, a parte la Napoli di via San Gregorio Armeno, fa notizia solo se un qualche don Vitaliano vuol fare lo splendido e toglie San Giuseppe per metterci due (Ma)donne arcobaleniche e inclusive. Ma qui siamo alle tragicomiche finali.
Nell’ottavo centenario della sua invenzione da parte di San Francesco e del suo debutto a Greccio nel 1223, la “scomparsa delle pecorelle” del presepio non deve dunque sorprenderci. È solo un’ultima conferma spicciola di un fenomeno e l’indicazione che non ci sono cristianità da puntellare ma un “cristianesimo da fare”, per dirla con Charles Péguy.
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