Violenza, brutalità, massacri, una disumanità che sembra diventata inarrestabile. E noi sempre più impauriti, disorientati, ultimamente impotenti. Invochiamo leggi che ci aiutino a difenderci. Siamo anche scesi in piazza per manifestare. E abbiamo pure dovuto constatare, con triste sconcerto, che anche quel manifestare non è riuscito a sottrarsi alla litigiosità, alla strumentalizzazione, alla reciproca delegittimazione.
Lo scontro con l’altro ce l’abbiamo ormai nel sangue. L’esaltazione del proprio particolare, l’enfasi sulle ragioni della propria parte, il bisogno di distinguersi, governano il dialogo politico, ma purtroppo spesso anche i rapporti tra le persone.
Ma prima o poi qualcosa insorge dentro di noi. Soprattutto quando vediamo che i primi ad essere vittime di questo mondo violento, rissoso e arrabbiato sono i giovani, i nostri figli. Vittime non tanto, o non soltanto, della violenza fisica, ma vittime di quel clima di sfiducia, di paura e ultimamente di cinismo che rende le loro esistenze spesso incapaci di tendere verso ideali alti, che li fa rinchiudere nella sicurezza delle loro bande, quando non nella solitudine della loro stanza.
Con questi ragazzi fatichiamo a trovare le parole, loro sono diventati per noi quasi un enigma. Spesso avvertiamo che le nostre famiglie non sono un luogo adeguato di accoglienza e di educazione . E inizia il ping pong delle responsabilità tra famiglia e scuola. Arriva anche il Progetto di educazione alle relazioni, appena presentato dal Ministro. Ma di fronte a ogni tentativo non riusciamo a sottrarci ad un ultimo scetticismo. Che cosa ci manca? Di fronte ai giovani, ma anche di fronte alla nostra vita. Di fronte alle nostre responsabilità di adulti, di persone che sono chiamate a progettare il futuro della società, della politica, dell’economia. Che sono interpellate dalle guerre e dalle emergenze internazionali sempre più drammatiche, non ultima quella ambientale cui papa Francesco non si stanca di richiamarci.
Se è vero che avvertiamo come disumano il tanto male che ci circonda, viene da chiedersi se siamo poi così sicuri di sapere cosa è veramente quell’umano che desideriamo.
Don Giussani, quasi 30 anni fa, così leggeva questa mancanza di consapevolezza su cosa è l’io dell’uomo. “Ormai la stessa parola ‘io’ evoca per la stragrande maggioranza un che di confuso e fluttuante. Dietro la paroletta non vibra più nulla che potentemente e chiaramente indichi che tipo di concezione o di sentimento un uomo abbia del valore del proprio io. Siamo in un’età in cui è favorita una grande confusione riguardo al contenuto della parola ‘io’. La conseguenza inevitabile di tale confusione in cui si dissolve la realtà dell’io è il dissolvimento del termine tu.” E, quasi profeticamente, aggiungeva “L’uomo di oggi non sa dire coscientemente ‘tu’ a nessuno. In ciò sta la radice ultima e apparentemente nascosta della violenza e della ricerca di potere che oggi determina i rapporti usuali tra le persone: riduzione dell’altro a un disegno di possesso e di uso, assenza di qualsiasi stupore e commozione per l’esistenza dell’altro”.
Per uscire dalla confusione abbiamo bisogno di ritrovare l’esperienza entusiasmante della nostra umanità, il gusto di esserci, di esistere e non semplicemente di funzionare, la vertigine di un desiderio che non si acqueta mai, il lancinante bisogno di senso in ogni cosa che facciamo, la domanda di incontrare qualcuno che ci ami per il solo fatto che esistiamo. Siamo costituiti da queste domande e da queste esigenze.
Lo sappiamo bene, perché quando ci imbattiamo in qualcosa che ci risveglia, un affetto, un dolore, un incontro imprevisto, quando accade che il desiderio di felicità o di giustizia come un bagliore si riaccenda, allora lo scetticismo scompare e l’energia dell’umano si sprigiona nuovamente. Quante volte è successo a noi! Quante volte lo abbiamo visto accadere negli altri! Questo è l’umano da ritrovare.
Lasciare spazio alle domande e ai grandi desideri ci toglie dall’angustia del particolare, ci fa intuire che gli altri sono mossi dalle stesse nostre esigenze, ci fa desiderare un bene che non sia solo per noi, ma che possa essere veramente comune, può addirittura farci comprendere che nel dialogo tra esperienze e culture diverse si può conoscere qualcosa di nuovo e prima sconosciuto.
È appena iniziato l’Avvento. Il tempo che nella liturgia della Chiesa cattolica prepara al Natale. Il tempo dell’attesa. E, come scrive ancora don Giussani, “noi siamo attesa, la nostra vita lo è.” Attesa di quell’umano corrispondente ai nostri desideri, quell’umano che a tratti balena nella nostra vita come dono misterioso. E quando il grigiore dello scetticismo quotidiano, l’affanno della riuscita, la solitudine o l’amarezza di un amore che ci manca, tornano a incombere sulla vita, è in quel momento che possiamo veramente “essere uomini”. Uomini che attendono. Come attendevano quei pastori che 2000 anni fa una notte sono corsi a vedere un bambino appena nato, infreddolito, avvolto in fasce. Erano certi solo della loro attesa e della notizia che era nato quello che loro attendevano. Hanno investito su questo e sono andati. E quando sono arrivati sono stati travolti dall’evidenza di una Presenza. E sono andati a raccontarlo ad altri.
Da 2000 anni per tanti uomini accade la stessa esperienza. Un’ attesa, la notizia di una Presenza incontrabile, è l’umano che rinasce.
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