Marco è un genio: punto a capo. È di Marco l’evangelista che sto parlando, anche se ciascuno, quando indossa un nome, dovrebbe ricordare che porta con sé anche un po’ delle peripezie di chi ha indossato il suo stesso nome prima di lui. È per questo che, quando apro il Vangelo, sento pesare il nome di Marco. Marco è un geniale cantastorie: lui lo sa che la gente, oggi, non legge più nulla. Alla gente, frettolosa com’è, basta sbirciare un titolo (son sempre truccati i titoli, dunque fuorvianti) e poi va da sé a farsi una conclusione. Gli basta un titolo, alla gente di fretta, per dire di avere letto tutta la storia.
È per questo che Marco, intelligentissimo com’è, immagina due tipi di lettori per il suo Vangelo: quelli che hanno fretta di sapere il finale e quelli, invece, che il finale lo vogliono scoprire strada facendo. Non è razzista né moralista, Marco: molto più semplicemente, scrive due vangeli in uno. Il primo, composto solamente di una riga, è per i suoi lettori che vanno di fretta: “Inizio del Vangelo di Gesù, il Cristo, Figlio di Dio”. Qui, se ci fate caso, c’è dentro tutto: queste parole sono il concentrato assoluto della vita di Cristo. Si dice che è il Figlio di Dio, che quand’è nato la mamma e il papà gli hanno messo nome Gesù e si dice che gli hanno dato il soprannome Cristo per assicurare che è Lui l’uomo giusto che il Cielo ha scelto come il suo rappresentante per giocarsi la partita finale contro il liquame di Satana: la partita della salvezza. “Vai tranquillo, lettore – sembra dirgli Marco –: hai in mano tutto quello che ti serve per credere. Buon viaggio!”. Fine del vangelo di chi è di fretta.
A chi, invece, si concederà il lusso di sedersi per ascoltare come è nata e cresciuta tutta la storia, Marco darà il meglio di sé raccontandola per filo e per segno. Raccontando chi è stato Cristo per lui. E inizia a raccontarla da lontano, da quando il Cristo doveva ancora venire al mondo.
“Tutto è iniziato da un grido – è il suo bell’esordio di narratore –: una sorta di urlo cavernicolo che sembrava giungere dal buio della notte”. Ecco l’urlo raccolto dall’evangelista: “Voce di uno che grida nel deserto – citando Isaia –: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Urlo che poi, quando s’infila nello scafandro di un uomo brusco come Giovanni Battista, diventa confidenza: “Viene dopo di me colui che è più forte di me”. Mette subito le cose in chiaro Giovanni: non è lui colui che deve venire – “Non affezionatevi a me, io sono soltanto di passaggio!” – ma lui è qui e si sta dando da fare per preparare la strada.
Perché, giungendo all’improvviso, il Dio del cielo non colga tutti all’improvviso: per fare in modo che, per chi si fiderà di Giovanni, la venuta di Cristo possa essere colta al volo quando passa. Isaia urla e grida, Giovanni parla alle orecchie e si confida: ci sono giorni in cui ti tieni tutto dentro e altri in cui non smetteresti di urlare. È il prezzo dell’essere andati via di cuore, d’essersi innamorati: l’equilibrio è un’arte difficilissima da praticare. Certe volte, poi, sentirai il bisogno di urlare, ma sarà come farlo controvento.
Poco importa se saranno in pochi ad ascoltare il Battista. Poco importerà, anche, se saranno in molti a confonderlo, pensando che sia lui il Messia che si sta attendendo. Per lui ciò che conta è non tenersi per sé le parole che gli fanno pressione dentro, fino a scartavetrargli l’anima: “Io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli poi vi battezzerà in Spirito Santo” (cfr Mc 1,1-8). Parole impopolari, che istigano alla rivolta, parole che lo manderanno a trascorrere i suoi ultimi giorni in gattabuia, a guardare il sole e il cielo a strisce: “Questo spazio nella mia testa – dirà alla sua maniera al carnefice Erode – non è in vendita e nemmeno in affitto”. Non lo è mai stato, sin dall’inizio della sua avventura di profeta: “Sono un’impopolare anguilla elettrica in uno stagno di pesci rossi” (E. Sitwell). Il che, a conti fatti, avrebbe dovuto far nascere almeno il sospetto che non fosse poi così matto come si credeva che fosse.
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