Quando si lascia un luogo, una persona, si cerca sempre di capire cosa è accaduto. Chi ha lasciato avverte spesso un senso di colpa per abbandonare un pezzo di se stesso, e spesso il dolore di andar via è superiore a quello di chi resta. Insegna l’esperienza che le colpe sono condivise, ma spesso lasciarsi alle spalle una pezzo di vita è l’unico rimedio per averne un’altra. Inevitabilmente la nostalgia, nel tempo, riporterà alla mente ciò che fu e ciò che poteva essere. Ma il presente, l’unico tempo che conta, impregnato di malinconia, diviene un male necessario a cui adattarsi per trovare una nuova dimensione di sé.
Di questa sensazione molti fanno un’esperienza che segna, ed insegna, ma per tanti nella modernità che ci circonda è una condizione esistenziale obbligatoria, non una scelta. E ricostruirsi prende tempo, devia la vita, rende meno solidi. A volte più maturi.
Ma quando a soffrine sono in tanti, tantissimi, non è solo il frutto di una scelta individuale. Vuol dire che quel luogo di vita che si lascia ha in se stesso il germe dell’incompatibilità con le vite di chi lascia. Se si pensava che il passato avesse messo da parte l’emigrazione, l’andar via più doloroso, come fenomeno di necessità, ci si deve ricredere.
I numeri certificati dall’Istat la scorsa settimana dicono che siamo nel pieno della crisi peggiore di questi decenni dei territori da cui parte l’emigrazione nel nostro Paese. Nei dieci anni 2012-2021 sono stati pari a circa 1 milione 138mila i movimenti in uscita dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord e a circa 613mila quelli sulla rotta inversa. Il bilancio tra uscite ed entrate si è tradotto in una perdita netta di 525mila residenti per il Mezzogiorno. Molti gli immigrati stranieri che invece si sono stabiliti nel Mezzogiorno, altrimenti il saldo sarebbe peggiore.
Tanti sono i giovani laureati che hanno lasciato per sempre le loro comunità. La regione del Mezzogiorno da cui si parte di più è la Campania (30% dei migranti), seguita da Sicilia (23%) e Puglia (18%). In termini relativi, rispetto alla popolazione residente, il tasso di emigratorietà più elevato si ha in Calabria (circa otto residenti per mille). Tassi sopra il 6% si registrano per Basilicata e Molise.
La regione verso cui si dirigono prevalentemente questi flussi è, in termini assoluti, la Lombardia (28%) ma, in termini relativi, l’Emilia-Romagna è quella che li attrae di più (quattro trasferimenti dal Mezzogiorno per mille residenti). Non a sorpresa, la provincia del Mezzogiorno da cui si registrano più partenze verso il Centro-Nord è Napoli in termini assoluti, mentre Crotone ha il tasso di emigratorietà più elevato: 11 residenti su mille che si spostano al Centro-Nord. Viceversa, la provincia centro-settentrionale che riceve più emigrati dal meridione è Milano, l’area metropolitana di Bologna è più attrattiva.
La qualità degli emigranti è elevatissima. Giovani, con istruzione superiore, tecnicamente preparati, immersi nella modernità si guardano attorno e capiscono che non hanno il modo di esprimere se stessi. Che la civiltà e le opportunità che cercano sono lontane dalle strade a loro familiari. E vanno via.
Che facciano bene, per la loro vita, non è in dubbio. Nella sola esistenza che si ha è necessario cercare di compiere se stessi in modo da poter trovare la propria via. Il danno che stiamo facendo è però incredibilmente profondo a tutto il tessuto sociale di quelle terre e del Paese. Lo spopolamento assoluto, infatti, è aggravato dalla perdita di competenze e qualità rappresentate da giovani formati. E spesso i partenti sono quelli più motivati (anche dalla necessità). Un vero “sale della terra” che andrà a rendere ancor più fertile altri territori.
A questo si aggiunge che la coerenza di progettualità per il futuro del Mezzogiorno, unita alla penuria di risorse di qualità, aggrava lo stato di comatosa piattezza delle vita economica e sociale del Mezzogiorno. A chi si dovesse chiedere perché tutto ciò appare irreversibile, è utile rammentare che la volontà di tenere il Mezzogiorno (e si badi che è una volontà) in questo stato è appannaggio della parte dirigente della società meridionale.
Invaghita di ciò che crede di essere (un locus mirabilis a cui tutto si perdona), gestita da una borghesia che tutela con ferocia i propri più stretti accoliti, refrattaria al merito come metodo di emancipazione (poiché sovverte il principio del clientelismo dei favori), quella che fu una delle componenti del Mezzogiorno (accanto alle eccellenze scientifiche e sociali) si è impadronita con i numeri soverchianti e con la cultura dominante di tutto ciò che la circonda e come un olio untuoso e scuro si è prorogata ovunque scacciando chi non le è simile o non si fa invischiare.
Certo qualcosa resiste, ma la sensazione è quella di trovarsi in un forte di frontiera al di fuori del quale vigono regole spietate per sopravvivere. Appiattirsi e restare o alzare la testa e andare via. Non sarebbe un gran male per chi resta (le classi egemoni così esercitano il potere, con l’espulsione) se non fosse che la penuria di tecnici, laureati, imprenditori illuminati, medici incide sulla vita di tutti quelli che restano che poi, meravigliandosi, scoprono i grandi divari che ci sono con altre aree a poche centinaia di chilometri distanza. E progetti potenzialmente divisivi come il regionalismo differenziato rischiano di essere l’epilogo drammatico di questa separatezza culturale e civile che motiva chi sta davanti a lasciare indietro chi è rimasto. Così il dolore della separazione, del lasciare alle spalle persone e le terre, si trasforma in rabbia per chi va e rassegnazione per chi resta.
Questo è il punto in cui siamo come Paese. È da qui che la politica, la società civile, dovrebbe, se ne fosse capace, interrogarsi partendo da se stessa nel Mezzogiorno. Nel frattempo la vita va avanti. E se non avremo medici al Sud per curare chi vi abita, ingegneri per fare le opere ed una società civile forte per combattere la pessima eredità della cultura millenariamente familistica, potremo solo consolare chi è andato via e prepararci ad un deserto sociale che avanza sempre più.
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