Al tempo della cristianità la Chiesa di Roma tollerava gli eccessi del carnevale non soltanto come gli ultimi bagordi prima dell’austerità della quaresima, ma per una ragione squisitamente educativa. Il carnevale rappresentava, infatti, il sovvertimento dell’ordine sociale: ciascuno, grazie alle maschere, poteva diventare chiunque, occupare per un giorno qualunque posto della società. In questo modo tutti i partecipanti potevano toccare con mano che all’origine del disagio che attraversava le loro vite non c’era la condizione economica, politica o culturale in cui si trovavano.
Ciò che agita il cuore non sono il marito o la moglie che supponiamo sbagliati, non è il futuro incerto dei figli, e non è neppure il denaro che manca sul conto corrente o le incomprensioni che attraversano i nostri rapporti con gli amici e i parenti: ciò che agita il cuore è l’inquietudine per una promessa che l’uomo sospetta possa rimanere senza compimento. Questo è talmente vero che potresti per un giorno essere papa o re, potresti acconciarti da nobile senza pensieri o da donna libera senza famiglia, che il tuo disagio rimarrebbe intatto.
Il problema non è mai nella vita che abbiamo, ma sta sempre nella vita che attendiamo. Il tempo del carnevale restituiva alla società di un tempo la misura infinita del bisogno che la costituiva, mostrando come non ci fosse una vita su questa terra che potesse illudersi di evadere da quelle domande che rendono umano l’uomo.
Ma il carnevale aveva pure un secondo aspetto pedagogico tutt’altro che secondario. Il travestimento rappresentava infatti anche la contestazione dell’ordine costituito. Col travestimento si criticavano politici, eminenti signori della città, artisti e prelati. Di questa “funzione critica” del carnevale restano tracce nei moderni carri che sfilano nelle tante manifestazioni storiche di cui è ricca la nostra penisola: in fondo la gente pensava che prendere posizione nella società significasse evidenziare con forza il male, la corruzione e l’immoralità del tempo. La saggezza della Chiesa tollerava tutto questo perché le persone di buona volontà si rendessero conto che il giorno dopo la denuncia, il giorno dopo la stigmatizzazione, il male restava male, il brutto restava brutto, il peccato era ancora peccato.
Dopotutto che novità è che le cose cattive siano cattive? Che le cose sguaiate siano sguaiate? Che le cose riprovevoli siano riprovevoli? Che cosa introduceva di nuovo nel mondo il cristianesimo? San Paolo era stato molto chiaro nell’indicare alle neonate comunità della Grecia che loro compito era “vagliare tutto” e “trattenere il valore”. Il valore non è quello che ci può essere di buono in una cosa, il valore è Cristo. Nella fede cattolica Cristo è risorto, il Verbo si è fatto carne e – dice Agostino – è rimasto carne. Quando un cristiano guarda qualcosa il giudizio su quella cosa coincide con l’indicare al mondo dove la presenza di Cristo fa capolino, dove Lui si può seguire. Colpisce sempre come, nelle vite dei santi, arriva un punto in cui nel caos e nell’immoralità del tempo riconoscono qualcosa di diverso, un punto che non posso ignorare e che fa sussultare il cuore.
Il giudizio sulle cose non è l’elenco di quello che non va rispetto all’idea che delle cose abbiamo in mente, ma di quello che – inaspettatamente – fa sobbalzare il cuore. Come sul mare di Galilea nei giorni della Resurrezione: il giudizio non era sul potere romano che aveva giustiziato Gesù, e neppure sul sinedrio di Gerusalemme, il giudizio era “Ecco, è Lui! È il Signore!”. Questo è il nuovo che travolge la zizzania e l’idolatria, questo è il nuovo che cambia. I cristiani che festeggiavano i giorni di carnevale si rendevano conto che sottolineare il male o processarlo non portava via il male, ma lo alimentava, ammantandolo di vittimismo. Per questo essi tornavano al loro lavoro di tutti giorni con la consapevolezza che l’unico lavoro da fare non era estirpare ciò che è cattivo, ma convertire il cuore al bene, affinché potessero guadagnare uno sguardo così verso il marito, la moglie, i figli, il lavoro, gli amici.
La quaresima è il tempo in cui ciascuno di noi torna nel proprio cuore e si prende cura – attraverso la pratica della preghiera, dell’elemosina e del digiuno – di uno sguardo che troppo spesso è malato e limitato. La follia carnevalesca ci rende più familiare il bisogno che abbiamo tutti nel cuore: guardare le cose come le guarda Dio, con quella misericordia, con quella tenerezza e con quella libertà che – per dirla con Claudio Chieffo – “non ho io”.
Ed è questo il senso di ripetere tutti gli anni lo stesso rito e lo stesso percorso: perché nessuno impara per sempre, nessuno si rende conto per sempre di come stanno le cose. E in fondo al cuore di ognuno alberga la tentazione di pensare che la nostra vita sia sbagliata, che il nostro tempo sia terribile, che se potessimo indossare per un giorno la maschera di un altro o avere il potere di un altro, allora tutto potrebbe cambiare. Sarebbe certamente bello e facile, ma renderebbe vano tutto, perfino la croce di Cristo. Perfino il lungo cammino che dal Mercoledì delle Ceneri ci porta, giorno dopo giorno, all’inaudita sorpresa del mattino di Pasqua.
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