Quando lessi per la prima volta “I miserabili”, mi colpì il fatto che all’uscita dalla prigione Jean Valjean, definito all’incirca come un “vigoroso vegliardo”, aveva in realtà 46 anni (io ne avevo una trentina). Ieri, per accertarmi di ricordare bene, sono andata a ripescare il libro, scoprendo anche che il protagonista, descritto in punto di morte come un vecchio decrepito, di anni ne aveva 64… Questa premessa letteraria mi consente di affermare che il concetto di vecchiaia è tutto sommato relativo, e in un momento in cui la popolazione invecchia a vista d’occhio non solo diventa necessario inventare nuove categorie (oltre ai giovani adulti e agli adulti giovani, abbiamo i giovani anziani, gli anziani e i “grandi vecchi”), ma occorre ripensare tutto il ciclo di vita al di là della tradizionale ripartizione formazione-lavoro-pensione, in cui il primo e il terzo segmento si sono enormemente allungati. Per questo ho letto con interesse una recentissima pubblicazione dell’Ocse, curata insieme all’Aarp (American Association of Retired Persons), il cui titolo “Retaining Talent at All Ages”, possiamo tradurre come “non lasciatevi scappare le persone in gamba, giovani o vecchie che siano”, che affronta il problema del rapporto fra domanda e offerta di lavoro da un punto di vista molto pragmatico.
I dati demografici, nel nostro Paese, sono impietosi ma chiari: la fascia di popolazione compresa fra 20 e 30 anni era nel 2002 del 13,4%, e nel 2022 del 10,1%; la fascia di età compresa fra 55 e 65 anni era, rispettivamente, del 12%, e del 14,9%. Con un’approssimazione rozza, in vent’anni la differenza fra i possibili ingressi nel mercato del lavoro e le possibili uscite, passa da +1,4% a -4,8%. Poiché attirare e trattenere i talenti, scrivono i ricercatori dell’Ocse, è fondamentale per il successo delle imprese e in generale dell’economia, in un quadro di questo genere lasciarsi sfuggire i lavoratori meno giovani, che hanno acquisito competenze specifiche per l’azienda, spesso tacite, cioè non trasmissibili se non in modo informale, è particolarmente grave, anche perché nella ripresa dopo la pandemia, la difficoltà di trovare lavoratori esperti è cresciuta ulteriormente, come anche la mobilità, disperdendo il patrimonio di capitale umano delle imprese; anche la durata media di permanenza in un posto di lavoro è diminuita di nove mesi fra il 2012 e il 2019.
Tra i provvedimenti indicati dalla ricerca, oltre a migliorare le retribuzioni e le condizioni di lavoro, decisioni abbastanza scontate, ci sono “investire in formazione”, ma soprattutto “conciliare il lavoro con il ben–essere”. Una delle conseguenze della pandemia, che molti di noi hanno sperimentato, è infatti l’aumento imprevisto del cosiddetto voluntary leaving: milioni di lavoratori in tutto il mondo, in particolare quelli liberi dal vincolo di immediata sopravvivenza, hanno incominciato a porsi delle domande sulla qualità della loro vita, e a chiedere un lavoro che rispondesse alla loro richiesta, non solo di migliori condizioni, ma di più significato. Molti, certamente, lasciano il lavoro perché non sono pagati abbastanza, o non hanno prospettive di carriera, ma un numero più alto del previsto si chiede, come Bruce Chatwin nei suoi ultimi mesi di vita, ripensando ai suoi mille viaggi, “che ci faccio qui?”.
Se ci chiediamo quale sia il ruolo della formazione in questo recupero degli adulti, troviamo una serie di risposte che ci costringono a ripensare l’assetto globale del sistema. La prima, e più ovvia risposta, è collegata al compito di qualificare per il lavoro, dal duplice punto di vista dell’insegnare a lavorare – dimensione dell’adulto, e quindi compito specificamente educativo affidato alla scuola, all’università, alla formazione professionale – e del sapere svolgere un determinato lavoro, compito più marcatamente professionalizzante che, in un’epoca di rapido cambiamento tecnologico e organizzativo, spetta alla formazione permanente, in tutte le sue forme, istituzionali e non.
Che nel nostro Paese entrambi questi compiti siano svolti in modo inadeguato è testimoniato dal mismatch (disallineamento? Mancato incontro?) fra competenze domandate dal mondo del lavoro e competenze in uscita dal sistema formativo.
Ma c’è un altro fondamentale ruolo che può e deve essere svolto dalla scuola, ed è mettere in condizione le persone di continuare a imparare per tutta la vita. Il cosiddetto “rapporto Faure”, pubblicato dall’Unesco nel 1972 aveva già indicato “imparare ad imparare” come una competenza chiave da trasmettere a tutti, e i risultati di ricerca documentano come chi ha studiato di più è motivato a continuare ad apprendere, mentre chi ha avuto una formazione di base povera difficilmente riprende da adulto. A cinquant’anni di distanza, anche sull’onda della ritrovata centralità delle competenze trasversali e socio emotive, l’interesse per quello che era diventato con gli anni una specie di slogan buono per tutti gli usi si è riacceso, originando una serie di ricerche e riflessioni un po’ dovunque, e in Italia tra i ricercatori di Invalsi, coordinati da Cristina Stringher, che hanno pubblicato una ricerca in sei Paesi (Apprendere ad apprendere in prospettiva socioculturale) che fornisce indicazioni interessanti a chi si occupa di formazione in generale, e di raccordo fra formazione e occupazione in particolare.
La capacità di apprendere cose nuove, così come la manutenzione di quello che già si sa, è fondamentale per facilitare i cambiamenti, condizione sempre più diffusa: negli ultimi tre anni, segnala l’Ocse, il tasso di mobilità è cresciuto in 24 Paesi su 27, e un lavoratore su cinque cambia lavoro ogni anno. I più vecchi però, di età compresa fra i 55 e i 64 anni non trovano facilmente un altro lavoro, solo uno su quattro, e sempre uno su quattro inizia una nuova attività. Servirebbe una formazione adeguata, con due condizioni preliminari: che le persone siano motivate ad apprendere, e questo è compito della formazione iniziale, e che esistano occasioni reali di (ri)qualificazione, e questo è compito dei decisori politici e dei diversi soggetti sociali coinvolti (le associazioni di categoria, i sindacati, le imprese). Ma le piccole e medie imprese, che sono in Italia la quasi totalità, in presenza di cambiamenti tecnologici od organizzativi fanno più fatica delle altre a fornire autonomamente la formazione necessaria ai propri dipendenti, e quindi sia lo Stato che gli altri attori possono costituire dei centri di competenza, come se ne sono già realizzati in Finlandia o in Olanda, per trasmettere ai lavoratori adulti le competenze richieste dal mercato, per riorientare quelli che hanno perso o lasciato il lavoro, e anche per supportare chi decide di mettersi a cercare lavoro dopo un periodo di inattività, ad esempio donne che si sono prese cura dei figli o di genitori anziani.
Purtroppo, in Italia il sistema della formazione nel corso della vita è a dir poco lacunoso: secondo l’ultima indagine Piaac sulle competenze degli adulti (quella, se vi ricordate, che ha mostrato come un italiano su tre è un analfabeta funzionale) solo il 41% delle persone fra 45 e 54 anni ha fruito nell’anno precedente di opportunità di formazione, e solo il 24% di quelle fra 55 e 65. Eppure sono proprio le fasce di età che presumibilmente avrebbero bisogno di essere aggiornate perché le loro competenze sono diventate, o stanno diventando, obsolete. Direi allora che il vero problema non è quello di mandare in pensione le persone il più presto possibile, ma al contrario di trattenerle, garantendo loro buone condizioni di lavoro per reddito, qualità dell’ambiente, sicurezza, ma anche – e questa è una novità importante – un adeguato supporto formativo. Altrimenti, inevitabilmente, sempre più persone si chiederanno “Perché lo fai? Perché non te ne vai…. Vivere per lavorare o lavorare per vivere” (Una vita in vacanza, Lo Stato Sociale, 2018).
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