Mancano pochi mesi all’annunciata revoca del reddito di cittadinanza ai soggetti ritenuti in grado di trovare occupazione. Lo switch voluto dal Governo è stato l’atto politicamente più forte sul tema delle politiche del lavoro, preparando il terreno per una fase nuova che può essere o la svolta in positivo per guardare ai prossimi anni, rivendicando un cambio di passo, o un atto di cesura definitivo con una parte del Paese arrabbiata e smarrita.
La svolta appariva estremamente necessaria. Cambiare la logica con cui il reddito è stato concepito, passando da una visione assistenzialista ad un meccanismo di accompagnamento dei lavoratori inoccupati è la sfida che il ministro Calderone deve affrontare. La svolta deve essere sulla formazione e sulle politiche attive, ovvero sul modo di incrociare la domanda e l’offerta di lavoro. I metodi potranno essere vari. È probabile che un ruolo lo assumano anche i privati, vista la carenza di competenze e risultati del pubblico, ma un rinnovato sistema di formazione dei lavoratori (accompagnati da un reddito che sia utile a dare sostegno mentre acquisiscono competenze), unito ad un più efficace sistema di incrocio tra i fabbisogni delle aziende ed i lavoratori stessi, rischiano di non essere efficaci.
Se, infatti, in periodo di massima occupazione come quello attuale si fatica a trovare lavoratori vuol dire che non manca il lavoro, come nei periodi di crisi economica, e neppure si può dire che manchi il modo di comunicare la richiesta delle aziende, ormai presenti nel web già da sole. Manca l’analisi approfondita sul Paese e mancano gli strumenti che possono far superare la crisi di alcuni territori.
In particolare la vicenda del reddito di cittadinanza è un evidente tema del Mezzogiorno. Lì si percepiscono le cifre più consistenti e lì sono più diffusi i percettori. Nonostante le tante richieste di lavoro al Nord, la penuria di autisti ad esempio, nonostante le offerte nel settore del turismo e del terziario ancora in tanti non hanno un lavoro regolare e sono invischiati nel meccanismo assistenzialista del reddito di cittadinanza. Come uscirne è il vero tema. Di certo la filosofia della sostanziale soppressione dello strumento ha in sé il meccanismo della sollecitazione forzosa. Se si vorrà avere il reddito, potendo lavorare, si dovrà seguire un certo percorso e trovare un impiego. Ma dove?
Il maggior fabbisogno di manodopera è nel Nord, immaginare migrazioni di massa sarebbe folle. La pressione antropica nel Nord è già elevata e svuotare il Mezzogiorno ancor di più non farebbe altro che aggravare la sostanziale desertificazione del Sud, che ha già perso in dieci anni centinaia di migliaia di cittadini. Per altro verso gli investimenti nel Mezzogiorno sono ancora bloccati dalla cronica incapacità di spesa dei fondi europei (la Campania anche nel 2022 è stata maglia nera per la capacità di spesa) per non parlare dell’amaro destino del Pnrr affidato ai Comuni, che non riescono a presentare progetti e idee concrete perché privi di competenze e risorse umane e quindi di progettualità.
Del resto è emerso da diversi studi che il rapporto tra dipendenti pubblici e cittadini, per quanto stupefacente possa sembrare, è migliore al Nord che al Sud. Ad esempio al Nord ci sono 6 dipendenti comunali ogni mille abitanti, al sud 4 su mille. Nella sanità le cose vanno pure peggio. Con intere regioni, come la Calabria, costrette a fare convenzioni con Stati esteri (Cuba) per trovare personale in grado di erogare almeno i servizi minimi.
Tutto questo, unito alle minori risorse che vengono dalle finanze locali ed alla presenza di fattori regressivi come un’istruzione di minore qualità, le mafie ed un generale sistema economico meno competitivo, rendono evidente che i disoccupati oggi appoggiati al reddito di cittadinanza difficilmente troveranno occupazione sotto casa. A meno che non si cambi il contesto. Ad esempio riassumendo nella Pa funzioni oggi esternalizzate, consentendo ai comuni di assumere pagando il costo con le risorse statali, accelerando con idonee strutture l’arrivo dei fondi sui territori.
Nulla di questo appare oggi allo studio in modo concreto ed appare perciò molto probabile che la riforma del reddito di cittadinanza sia un passo fatto per togliere forza agli avversari politici senza dare un nuovo percorso di vita alle persone che si vedrebbero tagliate fuori dalla misura. Draghi, che ha ispirato su molte cose la Meloni, aveva ben chiaro che andava mutato lo scenario macroeconomico complessivo per arrivare ad una soppressione dello strumento. Perciò aveva strutturato in Europa il Pnrr come un piano Marshall per il Mezzogiorno. Puntando sulla crescita complessiva del Sud per far avanzare tutto il Paese.
Ma quella strada appare oggi lontana, come se l’emergenza non vi sia più. Distratti dalla guerra, divisi dalle posizioni sull’autonomia differenziata, anche i politici del Mezzogiorno (o che vengono dal Mezzogiorno) di maggioranza o opposizione appaiono concentrati su altro. Non si vede la volontà di uno sforzo ampio e collettivo che possa rendere inutile il reddito di cittadinanza se non in fasi transitorie della vita di chi si voglia avviare su una strada nuova. La pochezza del ceto politico meridionale è la vera causa di questa visione miope, non trovando facile consenso un progetto ampio e complesso come invece si può fare distribuendo (o togliendo) soldi a pioggia.
Nel frattempo qualche altra generazione di meridionali sta facendo le sue scelte senza avere un contesto sociale almeno paragonabile ad altre zone dell’Europa. Ma di questo il Governo non parla. Non ne fa una sua battaglia e sceglie di riformare ciò che, nato male, è solo un pezzo del problema. Il reddito era la risposta necessaria, quanto errata nel metodo, ad un problema reale e concreto. Non sarà solo cambiando di poco la riposta che si risolverà il problema.
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