A partire da quest’anno gli studenti delle superiori che vorranno entrare alla facoltà di medicina potranno svolgere un test preliminare già in quarta. L’obiettivo è ottenere un reclutamento di qualità, favorendo i più bravi, i più preparati e i più decisi. Tecnicamente la misura avrà indubbi vantaggi, educativamente la questione è molto più ampia. Qual è il compito della scuola? Preparare all’università, alla vita, al mondo del lavoro? Ma, si perdoni l’apparente qualunquismo, che serve prepararsi al domani se da un giorno all’altro l’esistenza può esserci tolta?

Viviamo in un complesso sistema sociale in cui molte delle cose che si fanno sembrano pensate per preparare ad altro: ci si prepara al matrimonio, al lavoro, alle vacanze, all’università, alla vita eterna. Eppure, in ogni istante all’uomo non è chiesto di fare qualcosa, bensì di esserci. Si va a scuola per essere presenti, si sta con una persona per condividere l’istante che c’è, si vive un tempo insieme per abitare la relazione che lo vive con me. È chiaro che certi aspetti della vita necessitino di formazione, ma quando arriva il momento in cui – semplicemente – si vive?

Molti ragazzi sono così connessi ai loro schermi che non riescono più a rimanere in silenzio, ad aspettare in una fila, ad annoiarsi del tempo che c’è immaginandone un altro. Senza presente, senza un reale vissuto intensamente, non c’è più creatività, non ci sono più domande, non c’è senso critico. Tutto quello che fa ogni potere che difende se stesso, e che fa ogni tentatore fin dal giardino dell’Eden, è quello di toglierci il rapporto col presente, il mettermi dinnanzi a te qui ed ora, a guardarti, a sentirti respirare, a percepire l’emergere dei pensieri, delle paure, delle emozioni.

Gli uomini e le donne di questa generazione non sono senza Dio, sono senza presente, ossia senza quell’esperienza ottusa e cocciuta della vita che spalanca loro uno spazio in cui il Mistero diventa esperienza. Nei gruppi giovanili, come nei corsi prematrimoniali o nelle aule di una scuola, quello di cui tutti hanno bisogno non sono parole, nell’illusione che le parole cambino la volontà, il pensiero, l’intenzione o l’etica di un individuo: tutti hanno bisogno di tornare a percepire e a scontrarsi col presente.

C’è una parola bellissima che la tradizione della Chiesa ha pensato per venire in soccorso all’uomo che ha smarrito la coscienza del reale: penitenza. La penitenza, dal latino poenitet, consiste in un’azione che mi fa avvertire tutta la portata di quello che c’è. Altrimenti la vita è l’insieme dei pensieri che uno ha, l’amore è l’insieme delle percezioni che sperimenta, l’amicizia è la risposta ad un istinto che rende tutto più o meno interessante. Il saggio, oggi, non è colui che sa trovare nuove chiavi di lettura e di interpretazione delle situazioni. Il saggio è colui che si radica in quello che c’è, nella vita che adesso è data e che adesso mi incontra. Non si può vivere il dolore senza sentirlo, o sperimentare il piacere senza esplorarlo, non si può essere ragazzi senza annoiarsi, sposarsi senza lambire un po’ di solitudine, lavorare senza intercettare la necessità di uno sforzo per arrivare alla fine della giornata. È questa fatica ad esserci che ci manca.

Pensare di risolvere la questione dell’università distogliendo gli studenti del quarto anno dalla necessità di stare davanti ai libri non per la vita che verrà, ma per la vita che c’è, significa accettare una società in cui l’unico valore è quello che potremo un giorno fare con le cose che oggi impariamo. Una società che quindi non impara più gratuitamente, ma sempre dietro una promessa che oggi è un credito scolastico, un’ora di percorsi trasversali per le competenze e l’orientamento, un voto, un test universitario. Ma che, un domani, sarà sempre qualcosa di più che la vita non è detto che dia. E per questo, nel momento del dolore, quando in palio non ci sarà più nessun futuro, a tutti verrà semplicemente voglia di eliminarsi, di farsi fuori, di assecondare quell’inutilità che una condizione di fragilità sempre restituisce e impone.

Cresciamo ragazzi, ormai uomini, che non sanno più perdere, accettare un no, un insuccesso, un fallimento. Perché non sono più abituati a far parlare la vita, ad ascoltarla anche quando si sbaglia o la si tradisce. Facciamo pure al quarto anno i test per l’università, ma ricordiamoci che non nasce niente senza gravidanza, che non c’è vita senza attesa, che il seme in fondo sboccia perché accetta, misteriosamente, di morire.

È questo il segreto dell’essere adulti: la certezza che è nell’istante, in questo istante che può essere anche pieno di sacrificio, che mi aspetta tutta la bellezza della vita. Nessuno vive per quel che ci sarà domani, ma per Qualcosa – o Qualcuno – che invade il mio tempo oggi. E che rende prezioso tutto, perfino questo mio respiro.

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