La missione congiunta negli Usa, ieri, dei ministri dell’Economia di Germania e Francia (il vicecancelliere “verde” Robert Habeck e il macroniano Bruno Le Maire) ha preceduto di due giorni il Consiglio straordinario dei capi di Stato e di governo Ue: che da domani avrà sul tavolo il futuro del Recovery Fund e la politica industriale europea non meno della crisi geopolitica in Ucraina al giro di boa dell’anno e della perdurante emergenza migratoria.
Il summit di Bruxelles è stato preceduto dal primo bilaterale fra Germania e Italia con il Premier Giorgia Meloni ospite del Cancelliere Olaf Scholz a Berlino. Il passaggio ha chiarito quanto elevato si profili l’impegno per la Premier (ma non solo per lei al tavolo Ue) nel difendere gli interessi della manifattura nazionale bilanciandoli con le strategie comunitarie: sullo sfondo sia del confronto con gli Usa sul piano degli aiuti pubblici alle imprese; sia della riscrittura dei patti di stabilità economico-finanziari nell’Ue. Sono noti i punti critici, almeno quelli fra l’agenda italiana e quella tedesca.
Roma è d’accordo sulla necessità di una risposta all’Ira varato da Biden, dotato di 369 miliardi di dollari ufficialmente destinati ad accelerare la transizione energetica. Palazzo Chigi dissente invece dalla Cancelleria sull’opportunità di lasciare ai singoli Paesi-membri la possibilità di erogare aiuti diretti alle imprese nazionali, finanziandoli coi singoli bilanci, naturalmente entro i vincoli Ue (la Germania lo sta già facendo: prima con l’annuncio di un piano di riarmo da 50 miliardi, poi con il pacchetto di 200 miliardi di sussidi energetici per l’emergenza invernale). Meloni punta invece sullo sviluppo rafforzato della cornice Recovery: valutando l’aumento dell’originaria dotazione anti-Covid; l’allargamento/ricomposizione degli obiettivi (certamente quelli del Pnrr italiano); nuovi parametri finanziari comunitari per deficit e debiti; nonché il passaggio finale a forme effettive di euro-indebitamento (anche riconvertendo il Mes o creando un nuovo “fondo sovrano” Ue). Mentre la Francia sembra riservarsi una posizione intermedia (di tendenziale mediazione), un momento di frizione specifica – anche con la Commissione di Bruxelles, che difende l’originario NextGenerationEu – riguarda la maggiore o minore intensità “verde” delle future politiche economiche Ue. E non si tratta solo di allocazione di budget: la transizione energetica – lo ha ricordato sabato scorso al Convegno Forex anche il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi – presenta aspetti problematici anzitutto sul versante del calendario, che rimane stretto, nelle scadenze immaginate prima della pandemia e della guerra.
È su questo fronte che i disaccordi fra i Paesi Ue tendono a farsi meno marcati: c’è un filo rosso di preoccupazione che lega soggetti così diversi come l’industria dell’auto tedesca (molto importante per tanti settori di quella italiana) e i “gilet gialli” francesi, nonché i mercati finanziari europei preoccupati che capitali (e cervelli) fuggano in massa verso gli Usa, attratti dal “new deal 2.0” delineato da Biden, alla vigilia della nuova campagna presidenziale.
Nell’ordine del giorno del Consiglio Ue, anche la crisi ucraina e la gestione dei flussi migratori sembrano destinati ad assumere forti profili politico-economici. Nonostante le prospettive di un cessate il fuoco appaiano ancora difficili, non vi sono dubbi che quando la guerra finirà inizierà la ricostruzione dell’Ucraina semidistrutta dall’aggressione russa. Le cifre – nell’ordine delle centinaia di miliardi di euro o dollari – circolano già da mesi e non ha sorpreso nessuno l’escalation interna del Presidente Volodymyr Zelenski contro una corruzione ancora dilagante a Kiev (è parsa anzi un segnale di cambio di scena in corso). La “recovery” ucraina – in Europa, in linea teorica entro confini Ue allargati a Kiev – potrebbe avere dimensioni confrontabili con il Recovery europeo e l’Ira americano. Potrebbe quindi rimescolare ulteriormente il “risiko” geoeconomico dei grandi investimenti pubblici e privati di un dopoguerra globale. Nel cui orizzonte non mancherebbe l’Africa, finora lasciata alla conquista neo-coloniale della Cina.
All’inizio del 2023 il continente – finora relativamente risparmiato dal Covid e dalla crisi geopolitica – è teatro di una specifica escalation da parte della Russia stessa (con connotati militari) e da parte di Israele, con finalità articolate: di consolidamento dei cosiddetti “patti di Abramo” come contenitore di grandi accordi su sicurezza, scambi commerciali e investimenti fra Africa e Medio Oriente. Ma la macro-area subsahariana – dove la nuova “confrontation” va sviluppandosi – è la stessa da cui partono importanti flussi migratori, canalizzati sulla Libia, il Paese nordafricano per definizione instabile e conteso.
Di tutto questo è atteso parlino i leader dei Ventisette nella due giorni a Bruxelles. E se non riusciranno a maturare orientamenti condivisi, la prima a esserne danneggiata sarà l’industria europea.
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