Spero di non annoiarvi troppo se torno a parlare del merito, e più precisamente del rapporto fra merito ed equità, che pare arrivato solo oggi alla nostra attenzione grazie alla nuova titolatura del ministero dell’Istruzione e del Merito, Mim, che la quasi totalità delle persone continua pervicacemente a chiamare “della Pubblica istruzione”.
Il primo problema è quello di definire il merito, un concetto ambivalente: per alcuni, si riferisce agli alunni più bravi, quelli che ottengono i risultati migliori, mentre per altri indica quelli che si impegnano di più e riescono a migliorare la loro situazione di partenza.
Non si tratta di una differenza irrilevante, perché i primi guardano l’esito finale, indipendentemente dalle caratteristiche dei ragazzi e dal loro percorso, mentre i secondi guardano entrambe le cose, e tendono a sostenere che “la gara è truccata”, perché tutti possono partire (uguaglianza degli accessi), ma non tutti partono dallo stesso punto, e quindi non tutti arrivano insieme al traguardo, e alcuni non ci arrivano affatto. Nelle gare sportive si rimedia a questa situazione assegnando un handicap positivo: chi parte da più lontano, per arrivare in fondo ha più opportunità, e, per esempio, nel golf chi ha un handicap di 36 dispone di 108 colpi per completare un percorso di gara che ne richiederebbe 72 (“par 72″).
Secondo una concezione tradizionale, e in un certo senso statica, del merito, gli obiettivi fissati dalla scuola sono uguali per tutti, anche se magari solo pochi riescono a raggiungerli; oggi però tende a prevalere l’idea che, a parte lo zoccolo comune dei saperi minimi garantiti, anch’esso almeno in parte legato al contesto, la scuola deve piuttosto capire quali siano le traiettorie scolastiche che consentono a ogni studente, quali che siano le sue condizioni di partenza, di diventare un cittadino responsabile e di muoversi nella società. Le ricerche hanno mostrato che la soluzione dell'”uguale per tutti” non funziona, tanto che la scuola comprensiva, basata su questo principio, è stata un sostanziale fallimento, perché ha finito con l’abbassare la qualità degli insegnamenti senza migliorare le prospettive degli studenti meno favoriti.
Quanto all’origine del merito, posto che non è una sola, molti sostengono una posizione di tipo innatista, collegandolo a doni o talenti innati, in base a cui ciascuno sarà retribuito, citando – a sproposito – la parabola del Vangelo, in cui è vero che i talenti sono distribuiti diversamente, ma viene premiato sia chi ne aveva dieci che chi ne aveva cinque. A chi ne aveva uno solo, si chiedeva solo la rendita della banca, e l’errore è stato quello di non farlo fruttare, per piccolo che fosse. La concezione innatista accetta le disuguaglianza, e ha quindi bisogno di credere al merito come mezzo per superarle, ma è difficile attribuire al merito o alla responsabilità personale le disuguaglianze precoci, o negare l’evidenza che il successo è condizionato dall’appartenenza sociale e dalle precedenti esperienze scolastiche, e deriva più da caratteristiche ereditate che da qualità individuali.
Assegnare alla scuola il compito di fare una selezione “giusta”, allocando le persone ai diversi livelli della scala sociale a seconda, appunto, dei loro meriti, è contraddittorio, perché la scuola non solo non garantisce una competizione equa, come si è detto, ma anzi contribuisce a produrre le disuguaglianze, perché la qualità dell’insegnamento pesa sui risultati più delle caratteristiche personali, e i ragazzi più sfavoriti sono spesso nelle condizioni peggiori.
Posto che la soluzione ideale (abolire la marginalità sociale) è fino a oggi utopica, e comunque non alla portata della scuola, una logica esclusivamente meritocratica può avere effetti perversi: rischia di ridurre le funzioni della scuola all’istruzione e alla selezione, rinunciando all’educazione in senso pieno ed espellendo chi non ce la fa, con uno spreco inaccettabile oltre che ingiusto; genera un eccesso di competitività e di impegno che ha effetti negativi come lo stress o i disordini alimentari, fino alla crescita dei suicidi. Un altro esito perverso potrebbe essere quello di “abolire” la famiglia per eliminare i condizionamenti iniziali, negando il valore della solidarietà famigliare in nome di un’astratta giustizia sociale, mentre un intervento precoce corretto affianca, e non sostituisce, la socializzazione famigliare.
Bisogna allora far senza il merito? Certamente no, perché credere in un mondo giusto, in cui se lavori bene sarai premiato, accresce la motivazione a impegnarsi, mentre se prevale l’arbitrarietà, non ci sono motivi per fare bene. Chiunque abbia esperienza di insegnamento, sa che i ragazzi sono ferocemente sensibili alle ingiustizie, anche nei confronti degli altri. L’attenzione sta nell’evitare di sostituire il merito con la meritocrazia, un’ideologia che ha un carattere egemonico e normativo, e contrasta con il carattere universalistico della scuola.
Una scuola “giusta” trova un equilibrio fra i diversi valori, e così consente a chi ha più risorse di affrontare la competizione meritocratica, e dà a chi ne ha meno la garanzia di un sapere di qualità, che gli consente di trovare un lavoro e di partecipare alla vita civile.
Una delle vie maestre per ridurre le disuguaglianze iniziali sono state, e sono tuttora, le misure di discriminazione positiva, che alcuni criticano perché tendono a omogeneizzare verso una sorta di “pensiero unico”, svalutando le diversità, mentre è solo la valorizzazione dei diversi che pone le basi per l’uguaglianza. L’intento di minimizzare le differenze di partenza non può essere un modo per disinteressarsi di quello che succede dopo l’ingresso, e cioè che si raggiungono posizioni sociali diverse a seconda delle condizioni di partenza. Ma se la scuola non può neutralizzare l’effetto cumulativo dei condizionamenti famigliari, può però, ed è questo il suo grande compito, opporsi agli automatismi per cui le disuguaglianze iniziali si riproducono inevitabilmente nella vita adulta.
L’eccessiva importanza attribuita alle credenziali scolastiche ha come conseguenza uno spreco di risorse economiche e psicologiche: è aneddotica comune che Einstein andava male a scuola, Churchill non andò all’università perché suo padre non lo riteneva all’altezza, o, per scendere ad esempi più domestici, Piero Angela, comunicatore scientifico per eccellenza, non solo non si è mai laureato, ma in quarta liceo ebbe cinque insufficienze. Insistere troppo sui bei voti può essere controproducente, mentre è importante utilizzare la riuscita come stimolo.
Possiamo accettare e promuovere, a mio avviso, un merito che non sia “egemonico”, ma piuttosto “ponderato”, che tenga conto della dimensione sociale della riuscita e contribuisca a far crescere sia l’efficacia che l’equità, senza mai perdere di vista una concezione che promuove il valore e la dignità di ogni singolo ragazzo.
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