Il progetto di riforma fiscale in arrivo dal Governo ha le apparenze di un nuovo  “contratto con gli italiani”. L’implementazione, nella bozza, avrà il suo sviluppo nell’arco di due anni e oltre (la “flat tax per tutti” è nell’orizzonte quinquennale della legislatura piena). Ciascuna riforma è di per sé un contratto-Paese, siglato in Parlamento. Lo è anzitutto sul terreno fiscale: il più centrale e strutturale nei rapporti fra uno Stato e i suoi cittadini-elettori. Sotto questo aspetto il riassetto tributario messo in cantiere dall’esecutivo sembra tenersi lontano da eccessi puramente mediatici (del genere “un milione di posti di lavoro”).

Appare, invece, su un piano di fisiologia politica, il mantenimento delle promesse elettorali (è accaduto così nel 2018 per il Reddito di cittadinanza, che tuttavia non ha impedito a M5S una rapida implosione nell’ultima legislatura). Ed è, simmetricamente, il preannuncio dei “compiti a casa” su cui la nuova maggioranza s’impegna a farsi giudicare al prossimo voto: fra cinque anni (o anche prima: per l’europarlamento si vota fra un anno).

Se la capacità di “messa a terra” di una manovra fiscale strutturale è destinata puntualmente a contare quasi più del merito delle scelte, l’impianto della legge delega, secondo le anticipazioni del Mef,  presenta un cardine evidente: la riduzione a tre delle aliquote per l’Irpef, collegata a una forte razionalizzazione delle cosiddette “tax expenditures”: cioè dell’aggregato ormai vastissimo e intricato di detrazioni, bonus e altri benefici. La fruibilità di questi, negli intenti, verrebbe poi parametrata sugli imponibili e sarebbe questo meccanismo a garantire il principio costituzionale della progressività del prelievo. È un approccio semplificativo che, nelle premesse, guarda a un alleggerimento sostanziale della pressione nel rispetto di una logica di equità: che si annuncia peraltro il vero terreno del contendere fra il Governo e le organizzazioni sindacali, rappresentanti sia dei lavoratori dipendenti che dei pensionati.

Le associazioni del mondo imprenditoriale stanno invece offrendo più credito preventivo a una riforma che ha indubbi connotati “sviluppisti”. La cancellazione dell’Irap e il riordino dell’Iva – sempre in direzione semplificativa – sono le previsioni trainanti più visibili di uno schema di riforma che appare coerente con la maggioranza di governo che lo ha disegnato. Il più ambizioso banco di prova sarà la “nuova Ires”: una tassazione sulle imprese agganciata alla “global minumum tax” (15%) che sarà applicata dal prossimo 1 gennaio alle multinazionali. Un’aliquota di agevolazione confrontabile verrebbe applicata nel prossimo biennio alle imprese che investano o creino nuova occupazione. Il crinale fra un classico sistema tributario “pro business” e uno che intercetti il Pnrr nel generare “surplus di crescita” a vantaggio dell’intero sistema-Paese è sottilissimo: e sarà prevedibilmente qui che si giocherà il successo (economico-finanziario e politico) della “riforma Giorgetti”. Che, naturalmente, si dovrà misurare con la “mission impossible” di tutti i Governi e di tutti i ministri delle finanze: la lotta all’evasione. Quando, stavolta, la posta vale doppio: perché in gioco c’è l'”atterraggio” – più o meno morbido – nel perimetro di “Maastricht 2”.

Il vero titolo della riforma (e l’auspicio è che lo sia anzitutto per il Governo che ne è l’autore) non è “meno tasse per tutti”. E invece “più Pil per tutti” nei (prevedibili) dieci anni in cui l’Italia dovrà abbassare di molto il debito dall’attuale “quota 147”.

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