Sono passati 20 anni dall’invasione statunitense dell’Iraq. Il mio primo viaggio in quel Paese è stato tra la Prima e la Seconda guerra del Golfo, alla fine degli anni ’90. L’embargo causava una mancanza di cibo e medicinali. Anche negli hotel più lussuosi non c’era molto da mangiare. Ma si poteva girare il Paese, camminare da soli per Baghdad, andare a messa la domenica nelle parrocchie dei caldei. Saddam Hussein era un tiranno, aveva compiuto omicidi di massa nel nord-ovest dell’Iraq (Kurdistan) e guidato un regime corrotto.

Il mio secondo viaggio è stato cinque anni fa proprio in Kurdistan. Mosul era ancora nelle mani dell’Isis, un’organizzazione terroristica più sanguinaria di Al Qaeda. L’Iraq era dominato da diversi tipi di milizie, soffocato dagli scontri tra sunniti e sciiti. L’esercito in alcune aree aveva meno forza dei gruppi armati. Molti cristiani erano emigrati nella Piana di Ninive e da lì, quando erano di nuovo minacciati, a Erbil o in molti angoli del mondo. L’intervento degli Stati Uniti ha frantumato un relativo equilibrio tra le diverse confessioni musulmane.

Vent’anni fa, la frattura e la polarizzazione sociale negli Usa avevano raggiunto livelli poco conosciuti. La destra sentiva il bisogno di giustificare la guerra di Bush Jr. e la sinistra chiedeva violentemente una pace che spesso era un pretesto. È stato spiegato fino alla nausea cosa abbia portato l’allora Presidente degli Stati Uniti a fare ciò che suo padre aveva evitato. Non era il petrolio, non era l’imperialismo economico, ma la difesa di un ideale, di un’idea che risultò poi distruttiva. Se vale la pena ricordarlo è perché illumina alcuni aspetti del presente. Perché è stata avviata un’invasione sbagliata in nome della “guerra contro il terrorismo”?

L’allora segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, e il gruppo di neocon che influenzarono il Presidente, erano convinti che la sconfitta del comunismo fosse stata una conseguenza della forza delle idee. Contrariamente alla scuola più realistica delle relazioni internazionali, come quella di Nixon, sostenevano che gli Stati Uniti avevano il diritto di intervenire in qualsiasi parte del mondo per ragioni morali anche se la loro sicurezza non era in discussione. Dove c’era una necessità strategica e una minaccia letale e globale, era giusto agire. In Iraq venne applicato il modello dei regimi comunisti: una volta liberato dal tiranno, il popolo avrebbe abbracciato la democrazia.

Le sconfitte sono state schiaccianti in Afghanistan e in Iraq. Gli Stati Uniti hanno commesso errori da principiante: hanno smantellato la polizia e parte dell’esercito ed emarginato i sunniti. Ma, soprattutto, hanno dimenticato che la democrazia liberale nasce da un certo substrato sociale e culturale. Questo substrato si ottiene dopo molto tempo e con molti errori, senza poter evitare un equilibrio instabile. Non c’è moralità senza realismo.

Ecco perché non è intelligente, 20 anni dopo, sostenere che il modo migliore per difendere la democrazia, non più in Medio Oriente ma in Occidente, è resistere e sostenere un substrato che si sta dissolvendo. Resistere tre metri, due metri, un metro, ma resistere. Qualche mese fa il Pew Research Center ha analizzato la situazione e il risultato non è stato molto incoraggiante: “L’odio, la polarizzazione, la super-semplificazione del pensiero sono aumentati e aumenteranno ancora”, “l’apatia dei cittadini genera un pubblico disinformato e senza passione che indebolisce la democrazia“.

In questa situazione non c’è resistenza, progetto, risposta basata esclusivamente su una buona analisi che non sia destinata al fallimento. Ripetere principi giusti è frustrante. Serve solo che ci siano soggetti liberi dalla polarizzazione, disposti a entrare nella complessità e con passione per l’informazione, cioè per la realtà.

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