Vivere non è facile. Aveva proprio ragione Cesare Pavese, quello dei Dialoghi con Leucò, il Pavese che ha saputo mettere in bocca a muse, divinità, eroi dell’antica Grecia, le verità più decisive sull’uomo e il suo destino. Così si esprime per esempio Esiodo nel dialogo Le Muse: “La vita dell’uomo è un fastidio alla fine.

La fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso – questo è il vivere che taglia le gambe”. Sembra la descrizione del nostro quotidiano, perennemente sballottato tra la fatica nostra e la notizia del male degli altri. Quel male che ha tanti volti, dalle tragedie del mare alle guerre, alle migliaia di morti del terremoto, alla disperazione di chi pone fine alla vita propria o degli altri. Un fiume di dolore e di fatica che non ci dà tregua.

Corriamo, lavoriamo, soffriamo, forse anche con la segreta speranza che possa arrivare un momento di pausa. Magari un fine settimana o una vacanza in cui finalmente staccare e provare a liberarci da quel fastidio, che abbiamo imparato a chiamare stress, che pare non abbandonarci mai. E non possiamo certamente illuderci che la nostra sia una stanchezza derivante dall’età, dalle responsabilità che abbiamo, dalla fatica del lavoro.

I nostri giovani avvertono, forse più acutamente degli adulti, questa lancinante fatica del vivere. “Non temo la morte, ma ho paura di non vivere” scandisce brutalmente il rapper Marracash. E con lucidità si rivolge alla sua anima, cercando di carpire a lei il segreto di cosa sia il vivere: “Sei l’anima, sei la mia metà, come sei fatta nessuno lo sa. È tutta la vita che cerco me stesso. Visto che mi hai scelto, ora parla”. Non è un caso che i rapper siano così amati dai giovani. La lancinante domanda di senso che esprimono, la martellante ricerca della propria consistenza, attira, coinvolge, provoca. Corrisponde all’urgenza che i ragazzi hanno di sapere chi sono.

Anziché infastidirci davanti all’ inquietudine dei giovani e alle forme talora scomposte con le quali si manifesta, potremmo invece guardarla come il segno di una domanda che riguarda anche noi. Anche noi abbiamo bisogno di sapere chi siamo. Bisogno di fare esperienza di cosa è l’esistere. Ancora il Pavese di Leucò ci accende il cuore. “Meglio soffrire che non essere esistito” dice profeticamente Patroclo ad Achille la sera prima di morire. E Orfeo, a proposito della sua discesa nell’Ade alla ricerca di Euridice, dirà con consapevole struggimento: “Il mio destino non tradisce. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo”.

Abbiamo bisogno di sapere chi siamo, quale è la dignità del nostro esistere. C’è nella vita degli uomini un’esperienza semplice che ci fa capire chi siamo. Quando siamo fatti oggetto di un amore. Quando qualcuno si innamora di noi, quello sguardo carico di affetto diventa il nostro. Quando qualcuno ci abbraccia, quell’abbraccio ci definisce. Non una spiegazione. Non una teoria. Ma il calore reale di un amore. Un amore che ci fa sperimentare tutta la dignità del nostro esserci. Un amore che finalmente ci dice chi siamo. Lo aveva affermato don Giussani nel ’95, rivolgendosi agli universitari: “Cos’è la vita? È essere amati. Cos’è il destino? È essere amati”.

Abbiamo bisogno di un amore certo, più forte di ogni nostra debolezza, un amore che non finisca. “Qualcosa di grande che resti” come canta un altro rapper, Ernia. Ma chi può amarci così? Solo Dio! Lo ha fatto durante i 33 anni della sua vita umana, quando aveva detto alla vedova di Naim che accompagnava il feretro del figlio “donna non piangere”, quando aveva ridato la vista ai ciechi, quando si era seduto a tavola con ladri e prostitute, quando era morto per ognuno di noi, quando aveva perdonato a chi lo stava massacrando, quando si era portato in Paradiso il ladrone.

E continua ancora a farci incontrare il suo amore attraverso gli occhi e le braccia di chi già vive di quell’amore. Ecco, questo è ciò di cui abbiamo bisogno per sapere chi siamo!

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