Quando la Presidente della Bce, Christine Lagarde, invita le banche europee a rinegoziare a favore dei debitori i mutui concessi a tasso variabile, non è facile dire se rimanga sul terreno di una moral suasion particolarmente vigorosa o se varchi il confine del dirigismo.

Secondo Lagarde, sarebbe nell’interesse delle banche non riversare in tutto o in parte sui debitori i rialzi dei tassi decisi dalla Bce per contrastare l’inflazione. Non ha torto nel rammentare una dinamica peraltro elementare: un appesantimento rapido e inatteso dell rate dei mutui porta inevitabilmente con sé un incremento dei mancati rimborsi, con “sofferenze” sia per le famiglie e imprese debitrici, sia per le banche creditrici. Tuttavia, quella che può sembrare l’attesa di una scontata “autocorrezione di mercato” nei fatti suona come un affannoso appello dirigista. E sebbene la banca centrale dell’euro abbia la vigilanza diretta sulle grandi banche dell’eurozona, non ha il potere di imporre i prezzi cui le banche offrono i loro prodotti (come i mutui). Meno che mai può incoraggiare manovre sui prezzi da parte dell’intero settore: in aperto contrasto con il principio della libera concorrenza, fondante anche dell’Unione europea. La Bce, in ogni caso, si è spinta a sollecitare un calmieramento dei prezzi alle “sue” imprese bancarie: nettamente un passo oltre il “consiglio vigoroso” a non distribuire dividendi agli azionisti impartito e seguito dopo il primo anno della pandemia.

Quello bancario non è che un settore dell’economia fra tutti quelli che l’inflazione continua a scuotere: dopo un anno di turbolenze da guerra e con una tenacia superiore alle previsioni e soprattutto agli auspici. Non è il rialzo dei tassi la sola dinamica di cui una comunità di imprese beneficia (le banche addirittura dopo una lunga fase di “tassi/prezzi zero”). Il caso più eclatante è quello dei giganti dell’energia: che hanno annunciato in questi giorni profitti annuali giganteschi, i migliori della loro storia. Ma neppure gli appelli del Presidente Usa, Joe Biden, sono riusciti a ottenere più di qualche ritocco simbolico al prezzo della benzina: quando a metà 2022 aveva toccato negli States il record di 5 dollari al gallone. Né hanno avuto esito effettivo i tentativi di recuperare parte di quei profitti “inflazionistici” attraverso imposizioni fiscali straordinarie. I singoli Stati, sulle due sponde dell’Atlantico, si sono mossi in ordine sparso e in modo disorganico.

Le banche centrali – che non hanno alcuna autorità sovrana – sono state delegate dai Governi a contrastare l’inflazione, ma la leva “di mercato” dei tassi si sta mostrando limitata e non del tutto efficace. Ora paiono fare da battistrada – sempre rispetto ai Governi – di un ritorno a politiche dirigistiche: che appare però tecnicamente complesso e ai limiti del “falso ideologico”. Con esiti paradossali: Biden aveva promesso di alzare e generalizzare il salario minimo negli Usa, mentre ora gli incrementi delle retribuzioni sono giudicati uno dei motori dell’inflazione. Ma i paradossi problematici promettono solo di aumentare, fra neo-dirigismi e neo-sovranismi più o meno improvvisati: mentre l’economia globalizzata continua a muoversi nel postulato che gli Stati non possono e non devono intervenire su mercati e i loro prezzi; né essere proprietari di imprese o aiutarne singoli comparti con la finanza pubblica.

L’ultimo caso è quello dei controversi sussidi pubblici all’economia decisi negli Usa dall’amministrazione Biden: 370 miliardi di dollari sotto l’etichetta Ira (legge di riduzione dell’inflazione), ma destinati nei fatti a gruppi privati impegnati nella transizione green. È curioso che il piano sia stato contestato dall’Ue: che vanta una più vigorosa tradizione “ordoliberista”, di intervento pubblico anche nell’industria. Ma anche Oltre Atlantico, dopo un iniziale entusiasmo, sono iniziati i dubbi: anzitutto per gli specifici sostegni previsti per aumentare e innovare la produzione di microchip. Qui le prime “istruzioni per l’uso” diffuse da Washington fissano regole dettagliatissime e rigide. Alcune sono direttamente collegate alla strategia-Paese: il rilancio di un’industria nazionale dei microprocessori deve avvenire alzando muri commerciali e tecnologici con un gran numero di Paesi (non esclusa alla fine neppure l'”alleata” Ue). Ma – non del tutto attesa – è spuntata una fitta serie di richieste-vincolo apparentemente “decorrelate”: come l’investimento in strutture di assistenza per i figli dei dipendenti. Al dirigismo industriale (perseguito attraverso aiuti pubblici diretti) se ne sta sommando uno sociale, aggiungendo incognite: basta osservare i conflitti crescenti fra Stati e Governo federale su aree delicate della “politica della famiglia” come l’aborto o la scuola.

Che le “guerre mondiali” portino con sé sconvolgimenti radicali nelle diverse “civiltà” coinvolte – risultino esse “vincitrici” o “vinte” dopo esserne state diversamente “belligeranti” – è noto: ne sono testimoni milioni di esseri umani tuttora viventi, dopo aver attraversato i vari decenni seguiti al 1945 in diverse macro-aree del globo. Negli ultimi tre decenni in Euramerica il dirigismo statale in economia sembrava consegnato agli archivi della “fine della storia”: avendo peraltro promosso – nel suo modello estremo – l’ascesa della Cina come prima “fabbrica” planetaria. Vediamo ora in quale direzione e con quale arco si muove il pendolo.

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