L’epoca delle competenze tristi

Il 2023 è l'anno europeo delle competenze. Ma la definizione che l'Ue stessa dà di questo termine appare piuttosto riduttivo

Il 2023 è l’Anno europeo delle competenze, che, secondo il sito dell’Unione europea, “porterà nuovo slancio all’apprendimento permanente, dando alle aziende e ai singoli la capacità di contribuire alla transizione verde e digitale attraverso il sostegno all’innovazione e alla competitività”.

Nulla da eccepire: perché allora questa citazione mi ha suggerito di intitolare questo editoriale, parafrasando Benasayag, “l’epoca delle competenze tristi”? Perché mi sembra che banalizzi un tema particolarmente interessante per chi si occupa di educazione. Il concetto di “competenza” è ben più ricco di quanto non comporti la definizione che lo lega alla capacità dei singoli e delle imprese di contribuire alla transizione verde e digitale eccetera eccetera. Con questo non intendo dire che la trasmissione e la misurazione delle competenze disciplinari, di cui PISA è probabilmente la più nota, siano inutili: a quasi 25 anni di distanza dalla prima indagine, che si svolse nel 2000, si può affermare che le analisi sulle competenze acquisite a scuola servono a valutare l’efficacia del funzionamento dei diversi sistemi scolastici, quali siano i fattori che determinano le prestazioni scolastiche, e come i sistemi stessi possano essere migliorati per preparare efficacemente i giovani al passaggio all’età adulta.

Riconosciuta l’importanza di disporre di informazioni attendibili e aggiornate, serve però capire in che modo le competenze, comunque acquisite (quindi anche in età adulta), siano collegate alle dimensioni non economiche, considerate essenziali per una “vita realizzata” e per il buon funzionamento della società: questo interrogativo si pone in particolare per il gruppo di competenze variamente definite come socioemotive, non cognitive, tratti di personalità (o, come dice spiritosamente un collega di Trento, whatever you want skills).

A mio avviso, e questa non è solo un’ipotesi, ma una delle prime acquisizioni delle ricerche in corso, le competenze sono strettamente collegate alla sviluppo complessivo della persona e alla qualità della vita, in una prospettiva che filosofi e pedagogisti definiscono olistica, e che io traduco come orientata a cogliere la complessità della persona, che non può essere ridotta a una sola dimensione, per importante che sia: una dimensione unica è oltretutto soggetta a essere manipolata e sottoposta alle logiche di potere.

Una competenza, per dirlo in estrema sintesi, è la capacità di rendere operativo un sapere, per far fronte alle sfide che la vita quotidiana ci offre. Risulta subito chiaro che non ha senso vederla come contrapposta ai saperi, come se venissero svalutati, dal momento che costituiscono la base dell’azione, di quell’agency che una traduzione dall’inglese che mi piace molto definisce “capacità di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà”. Per una presenza attiva e critica nella vita sociale servono competenze tecniche, come potrebbero essere saper leggere, scrivere e far di conto, come si diceva un tempo, ma anche conoscere le basi dell’informatica e dell’inglese, competenze di base o trasversali, come saper lavorare in gruppo, risolvere i problemi, prendere decisioni…, e infine competenze socioemotive, o tratti della personalità, come i “big five”, che sono estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura mentale.

In realtà ci sono altre tassonomie, che comprendono un maggior numero di caratteristiche o le dettagliano in modo più specifico: uno dei motivi per cui mi piace la dizione di “big five”, i cinque grandi, è che prima di essere utilizzata dagli psicologi indicava cinque “grandi animali” della fauna africana (leone, leopardo, rinoceronte, elefante e bufalo) che erano sì molto grandi, ma soprattutto difficili da catturare, e quindi costituivano un trofeo particolarmente ambito per i cacciatori e oggi, fortunatamente, per i safari fotografici. Mi piace pensare che avere sviluppato queste caratteristiche della persona costituisca un successo, tanto quanto avere voti alti in matematica o in italiano.

Un’adeguata strumentazione culturale comprende dunque le competenze disciplinari e tecniche che riducano il rischio di marginalità, di lasciare fuori i più deboli: questo si può fare accrescendo la quantità ma soprattutto la qualità dell’istruzione. Ma la scuola non può limitarsi a questo pur essenziale compito, e deve porsi un obiettivo più ambizioso, cioè quello di mettere in condizione gli alunni di prendere parte alla costruzione sociale dell’identità, in altre parole di diventare adulti consapevoli all’interno di un determinato contesto, in cui (oltre all’acquisizione delle competenze e delle qualificazioni richieste dal mercato del lavoro) il ruolo del sistema di valori a cui la scuola fa riferimento è sempre più determinante per consentire a ogni persona di esprimere tutte le sue facoltà e realizzarsi pienamente.

La trasmissione educativa si basa sul fatto che ciò che si insegna non fornisce solo un apprendimento specifico, ma la capacità di generare apprendimenti successivi: è quel che tradizionalmente nella scuola si indica con l’espressione “valore formativo di una materia”, intendendo che può anche prescindere da un’utilità immediata – per esempio il latino -, in quanto il suo valore sta nel fatto che genera o sviluppa l’attitudine ad apprendere.

In una società come la nostra che cambia rapidamente e spesso in direzioni imprevedibili, la formazione non può avvenire una volta per tutte all’inizio della vita, per lunga che sia (la formazione, non la vita!): non solo è importante la “manutenzione” delle competenze acquisite a scuola, ma è necessario accrescerle e modificarle. Per questo nella definizione dell’Unione europea mi sembra meritevole di attenzione il riferimento all’apprendimento permanente, punto su cui ho ripetuto fino a diventare molesta che il nostro Paese è in grave ritardo. Ma per potenziare la formazione nel corso della vita non serve solo un’offerta di occasioni, oggi del tutto inadeguata, ma soprattutto la capacità di imparare, che si acquisisce a scuola, consente di controllare le situazioni nuove anziché subirle, ed è un elemento determinante della motivazione e dell’autostima.

Non consiste, in sé, nell’imparare cose nuove, ma nella capacità di indirizzarle adun fine specifico (risolvere problemi, adattarsi a situazioni che cambiano, aggiornare le proprie competenze già acquisite) in un contesto di complessità crescente in tempi sempre più brevi, ed è composta in misura variabile dalla padronanza delle tecniche e dall’orizzonte di senso di quel che si impara, senso la cui finalizzazione varia nel tempo e nello spazio: utilità, autorealizzazione, vicinanza alla verità…

È allora quantomeno riduttivo, oltre che inesatto, limitare le competenze alla possibilità di “sostenere l’innovazione e la competitività”: esse sono, piuttosto, gli strumenti per diventare adulti. Come diceva Alanna, studentessa diciottenne di una scuola charter di una zona periferica di Boston, “quando esci dalla scuola, trovi la vita, ed è dura, e devi imparare un certo numero di cose che ti insegnano qui a scuola” (citata da Seider, Character compass, pag. 117).

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