Buscando la felicitad pero con miedo de que non exista. Questa frase è scritta con la vernice rossa su un muro della stazione del passante ferroviario di Porta Venezia a Milano. E tutte le volte che passo di lì mi fermo a rileggerla e divento pensieroso. “Cerco la felicità, ma con la paura che non esista”. Che tarlo micidiale quel dubbio che smangia il desiderio più naturale e inestirpabile dell’uomo. Di un giovane, poi: perché solo un cuore giovane e urgente ti manda con il pennello e la tolla di vernice rossa a scrivere quella roba capitale nel posto dove la gente è più frettolosa e distratta, di passaggio veloce, diretta altrove.

Mi è tornata in mente quella frase quando giorni fa hanno dato la notizia della studentessa dell’ateneo di Ferrara che ha denunciato la quasi coazione alla performance che vige nel sistema universitario generando ansia e depressione fino al suicidio per insuccesso. Si inaugurava l’anno accademico (il 632esimo), c’era il presidente Mattarella e così la giovane Alessandra ha fatto notizia, e con lei il problema sollevato, e destato un po’ di dibattito: per un paio di giorni, perché, si sa, l’informazione è (anche) una gran macchina della repentina dimenticanza.

Intanto, dopo pochi giorni (venerdì scorso, Venerdì Santo…) si è impiccato un ragazzo di Chieti, indietro con gli esami di Medicina. Ha dovuto accontentarsi di un trafiletto al piede della pagina 25, perché “abbiamo già dato” direbbe un professionista dell’informazione che si rispetti.

I suicidi dei giovani tra i 15 e i 24 anni sono veramente tanti e in crescita; 200 all’anno attualmente; molti sono studenti universitari. Spulciando nelle cronache, solo degli ultimi due o tre anni, possiamo constatare che non c’è città – da Torino a Palermo, da Bologna a Salerno, da Napoli a Pavia – in cui uno studente non si sia gettato da un ponte, o impiccato in un bagno, o schiantato apposta in auto contro un albero. La causa prossima, il motivo scatenante è sempre in qualche modo legato all’insuccesso scolastico – esami non dati o non superati, laurea che non arriva mai – o talvolta a problemi economici, mancato ottenimento di borsa di studio o di alloggio per fuori sede. Realtà non di rado celate, con filiere di bugie, alla famiglia percepita come centro di aspettative e pretese inderogabili.

A tutto ciò va aggiunto il “sommerso”: per ogni suicidio realizzato ve ne sono più d’uno falliti, e numerosissimi casi di depressione, ansia, paura di fallire, o deludere, senso di colpa e di inadeguatezza che rendono il quotidiano come una cappa di piombo e la vita infelice anche senza  indurre alla soluzione estrema.

Chi cerca di analizzare cause e contesti, in primo luogo gli studenti stessi, oppure gli esperti (c’è sempre qualcuno esperto di qualsiasi cosa), il più delle volte additano da una parte il dominio in università di una logica performativa, competitiva e meritocratica e dall’altra contesti relazionali, soprattutto la famiglia, per la quale spesso il valore del ragazzo è dato, praticamente, dal suo rendimento.

Si aprono qui piste di lavoro e di cambiamento da prendere bene in considerazione: da un lato una vita universitaria che, attraverso una buona relazione tra maestro e discepolo e una buona socialità tra compagni, sostenga il percorso della conoscenza e della preparazione al futuro adulto. Dall’altro lato la necessità di riqualificare il diritto allo studio, in funzione dell’assicurare mezzi e strumenti di una vita universitaria adeguata e dignitosa e che non si riduca a interventi assistenzialistici fini a se stessi. È richiesto anche il rafforzamento dei servizi al benessere psicologico.

Se facciamo attenzione ad alcune frasi lasciate scritte da studenti suicidi, la nostra riflessione può provare a spingersi un po’ più in profondità: “Sono un fallimento, non merito di vivere”. “La mia vita è inutile e inconcludente”. Dichiarazioni che sono come un grido, una domanda di senso, un desiderio di compimento (“buscando la felicitad…”) che si smarrisce nel nichilismo dominante, fuori, dove nulla vale se non per quanto mi produci, e dentro, dove il potere ha ridotto i desideri indirizzandoli su falsi bersagli, lasciandoci dinamicamente e affettivamente scarichi, nella nostra solitudine iper-connessa… con tutti e nessuno.

Il punto chiave è proprio lo smarrimento dell’io, il suo perdersi come persona al punto di non saper reggere la sconfitta, la difficoltà, l’insuccesso da cui pure la vita non è mai esente. Non ci sono più, o non reggono più, gli appigli di una volta, cui riferirsi magari contestandoli, come nel ’68: l’auctoritas (evaporati i padri), le regole (solo diritti), le solidarietà politiche di base (solitudini iperconnesse, come già detto), la tradizione (il nuovo che avanza… e che ci ha lasciati in braghe di tela). Anche la constatazione della propria fragilità difficilmente ci apre a una ricerca spirituale attiva, sul bisogno, il desiderio, il rapporto con l’infinito. Sulla possibilità in definitiva di ritrovarsi come persona, come io cosciente e consistente pur nella strutturale fragilità.

Resta una possibilità, l’unica: un incontro. L’incontro con qualcuno o qualcosa che ci raggiunga con la sua fiducia in noi, una presenza che ci stima e che scommette su di noi, che ci accompagna anche se prendiamo una buca. Non c’è altro modo in cui la persona possa ritrovarsi, che in una simile compagnia. Ci sono opere, tante, scuola, ambiti accademici, centri di recupero scolastico, di accoglienza e di avviamento al lavoro, in cui questo tipo di compagnia è operativa. Ci dice che è possibile. È possibile perdersi e ritrovarsi, fallire e riprendersi.

E poi, giusto ieri, abbiamo contemplato che il più grande fallito della storia… è risorto. Hai visto mai?

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