È una riforma solo apparentemente “mini” il Ddl Capitali che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha portato sul tavolo del Consiglio dei ministri. Sono tecnicamente “minori” le imprese cui il provvedimento vuol facilitare la quotazione in Borsa: raddoppiando da 500 milioni a un miliardo la soglia di capitalizzazione utile per il regime semplificato da poco in vigore.

Ma i soggetti che la Banca d’Italia giudica pronti per il listino di Piazza Affari non sono affatto pochi o piccoli; sono più di 2000, cioè cinque volte il numero di tutte le 414 società italiane attualmente quotate. Di queste, peraltro, ben 334 sono “piccole e medie imprese”, facendo di Milano una sorta di Borsa-laboratorio all’interno del circuito Euronext (con Parigi capofila, Amsterdam, Bruxelles, Madrid, Lisbona e Dublino). Metà circa delle Pmi quotate (167) è approdata al listino dopo il 2018: sulla scia dei “Piani individuali di risparmio” (Pir).

Il rilancio del nuovo Governo di centrodestra può apparire l’ennesimo: e in parte lo è. Il sistema-Italia – da un lato milioni di famiglie grandi risparmiatrici, dall’altro centinaia di migliaia di aziende piccole e medie a larga proprietà familiare – si è sempre retto su una finanza bancocentrica (dando prova nel lungo periodo di buona solidità). L’intermediazione diretta sul mercato non è mai veramente decollata: anche per questo una parte del risparmio finanziario degli italiani (ancora calcolabile in oltre 5mila miliardi di euro) è investito in economie estere, canalizzato da una sistema di asset manager che in Italia non può contare su un’offerta vasta e profonda di titoli azionari od obbligazionari. Il Ddl Capitali, tuttavia, non va solo a rispondere all’esigenza strutturale di sostenere Milano come hub finanziario di primo livello in un’Europa sganciata dalla City londinese. Va soprattutto a proporre un intervento strategico di fronte a un’emergenza.

La crisi bancaria – innestata in quella geopolitica determinata da pandemia e guerra – ha visto accendere preoccupanti focolai su entrambe le sponde atlantiche dell’Occidente. Preme l’azione anti-inflazione delle banche centrali a colpi di rialzo dei tassi: e questo colpisce tutti i debitori (Stati, banche, imprese). Un razionamento del credito è nell’ordine delle cose e nelle cifre: in un momento in cui le imprese italiane – soprattutto le 20mila del Made in Italy – sono alle prese con una lunghissima resilienza, proprio quando i nuovi scenari competitivi impongono investimenti di sviluppo. Sui conti bancari e postali continuano a giacere, nel frattempo, oltre 1.500 miliardi: certamente utili a presidiare la stabilità delle aziende bancarie, ma certamente esposti a rischio d’inflazione per i detentori e “inutili” alle esigenze finanziarie di molte imprese.

La scommessa della “riforma Giorgetti” è questa: allargare la vetrina di Piazza Affari perché il risparmio nazionale possa affluire sul mercato alle imprese del made in Italy, o direttamente o attraverso strutture e strumenti dell’asset management (che si va rafforzando nell’Azienda-Paese con operazioni di consolidamento come quelle maturate attorno ad Anima e Azimut). Non da ultimo è un’autentica riforma liberale, perfettamente coerente con la formula politica uscita vincente dall’ultimo voto. Quando il confronto politico-finanziario è avviluppato attorno al Pnrr (cioè debito pubblico indirizzato a investimenti pubblici) il Ddl Capitali ha il significato in sé di dare attenzione e spazio – a costo zero – al risparmio privato e agli investimenti produttivi delle imprese private.

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