L’International Labour Organization (l’agenzia dell’Onu per il lavoro) stima che in media un giovane ogni cinque sul pianeta sia “Neet“: non stia frequentando una scuola, non sia occupato, non sia impegnato in un percorso di formazione professionale. Sia “non active”: senza nulla da fare oggi e, soprattutto, senza prospettive di fare qualcosa domani.

Può non stupire, certamente impressiona di più leggerlo scandito Paese per Paese. Apprendere che in Cina (nella “fabbrica del mondo”, in crescita annua a due cifre fino al Covid) i Neet siano stimati al record da due decenni. Vedere accostati nel trend Paesi come Yemen o Niger ad Argentina e Messico. Colpisce anche osservare il “gender gap” nell’arcipelago Neet: per Ilo sono infatti tali su base globale il 32% delle giovani donne e solo il 15% dei giovani uomini.

La notizia resta comunque che non c’è un luogo al mondo (neppure gli Usa o l’Ue) dove i Neet stiano diminuendo e non è solo a causa delle indagini statistiche più approfondite. Queste consentono sicuramente di riclassificare in modo corretto come Neet  giovani nominalmente impegnati in “job” un tempo considerati pieni. Ma non possono essere più giudicati tali i posti pesantemente precari e/o sottopagati; e soprattutto: impieghi in cui sia drammatico il “mismatching”  fra la domanda e l’offerta di competenze da parte di giovani dotati di curriculum di studi avanzati.

Il “Neet” non è (più) per definizione il “dropout” dalle scuole nei Paesi avanzati o lo svantaggiato strutturale nei Paesi ancora fragili nelle strutture e nelle politiche di education. Sono quasi sempre Neet i migranti quando riescono a posare piede a terra. I Neet – con o senza titolo di studio – proliferano nei Paesi più lenti o addirittura fermi nella transizione digitale. Sono i Paesi dove la “platinum economy” – quella trainata dall’innovazione tecnologica – non è neppure all’orizzonte: e non mette in moto il volano che vede un lavoro propriamente hi-tech generarne a leva fino a cinque in più non-hi-tech.

L’aumento dei Neet nel mondo è in sé una pessima notizia. Il cui unico lato potenzialmente non negativo è che un’emergenza crescente in via del tutto trasversale sul pianeta può costituire un terreno comune – diverso dai campi di battaglia – per affrontare una delle più autentiche e profonde “faglie” della diseguaglianza globale.

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